Completo il mio precedente, riprendendo il bell’articolo di Giancarlo Cerini, a proposito di saperi e competenze: si formulano ipotesi di intervento, si critica, si riflette, ma soprattutto, si prova davvero a dare delle risposte, il che è secondo me decisivo.
Infine, si pone l’accento sull’importanza della verticalità, fondamento imprescindibile di una nuova riorganizzazione professionale.
Il curricolo verticale nasce in parallelo al dibattito sulle competenze: non è cioè la semplice distribuzione diacronica dei contenuti da insegnare (il cosa far prima ed il cosa far dopo).
Ma cosa significa lavorare sulle competenze?
E che rapporto c’è con i contenuti veicolati dai libri di testo?
E cosa significa “traguardi per lo sviluppo delle competenze”?
E se dovessimo “certificare le competenze” cosa cambia nella didattica?
Nella scuola secondaria, quando si parla di competenze, si intende generalmente il saper fare, il saper operare.
Questa curvatura “utilitaristica” la troviamo anche nei documenti europei sulle competenze-chiave, dove si pone l’accento sull’usabilità delle competenze. Certo, non
può che far bene (per una cultura idealistica come la nostra) avvicinare il lato pratico a quello teorico, cioè il padroneggiare le conoscenze per essere in grado di affrontare una situazione, un problema.
Ma in Italia, abbiamo altre fonti per impostare il tema delle competenze: per la scuola dell’infanzia, già negli Orientamenti del 1991 si parlava di competenza con un
approccio “olistico”, in cui l’idea di competenza rappresenta la sintesi di varie dimensioni di sviluppo (cognitive,sociali, emotive) e sottolinea l’importanza del contesto nell’offrire al bambino situazioni di apprendimento.
C’è una evidente influenza vygotskijana nel concetto di potenzialità di sviluppo e nelle dinamiche sociali della conoscenza, che rimandano ad un apprendimento attivo, situato, partecipato.
Nelle Indicazioni/2007 si parla non a caso di ambienti di apprendimento.
La ricerca svolta negli istituti comprensivi, sul curricolo verticale centrato sulle competenze, ci può aiutare ad affrontare meglio la questione.
Piero Boscolo (coordinatore scientifico di una rete di istituti comprensivi sperimentali) parla di competenza come apprendimento di qualità, non di soli contenuti ( = conoscenze dichiarative) ma anche di abilità ( = conoscenze procedurali), linguaggi
( = conoscenze immaginative), mettendo in gioco motivazioni, emozioni, socialità.
La parola competenza evoca un metodo di lavoro, l’idea di processi da attivare, il clima favorevole, la partecipazione emotiva, la sfida dell’impresa conoscitiva, la voglia di andare avanti.
Cosa può voler dire una didattica per competenze?
Certamente rimanda ad una didattica più interattiva e dialogata all’interno della classe, che non abusa della lezione espositiva.
La classe è intesa come luogo nel quale si realizza un’idea più “attiva” di apprendimento: la competenza deriva da anche situazioni di sfida, dalle quali scaturiscono curiosità, domande, problemi da affrontare (Pellerey).
Questo implica anche saper costruire ed offrire situazioni-problema stimolanti e documentabili.
Se il principiante è colui che usa le cose che sa (che ha in testa), il competente è colui che usa anche le risorse dell’ambiente (insegnanti, compagni, documenti, linguaggi, tecnologie); è colui che partecipa sempre più consapevolmente ad un ambiente culturale organizzato, sapendo utilizzare tutti gli strumenti (gli artefatti) della conoscenza.
Solo così si costituisce una comunità di pratiche e di apprendimento: questa è la classe che lavora sulle competenze.
Non basta la centratura sui processi personalizzati (Indicazioni/2004), occorre puntare sull’idea dell’ “apprendere insieme” (insieme ce la possiamo fare!).
Oltre a sviluppare il curricolo, bisogna sviluppare una vera e propria comunità professionale, all’interno della quale ci si confronta costruttivamente.
Va coltivata l’attitudine al confronto; anche le riunioni dovrebbero essere finalizzate, rese utili, diventare occasioni di crescita professionale.
Lavorare sulle competenze significa sviluppare le potenzialità del curricolo verticale: questa è la ragione “sociale” dell’istituto comprensivo.
Approfittando dell’ambiente cooperativo degli istituti comprensivi c’è l’opportunità di rendere più incisiva la progettazione del curricolo verticale, da articolare per obiettivi di apprendimento e per traguardi di competenza, in relazione ai diversi percorsi disciplinari.
E’ un’attività che implica:
-la selezione e scelta di contenuti e temi essenziali, attorno ai quali avviare una progressiva strutturazione e articolazione delle conoscenze;
-l’individuazione di abilità strumentali (gli automatismi) e procedurali, che consentano poi di sviluppare progressivamente strategie di controllo del proprio apprendimento;
-la messa in luce di atteggiamenti, motivazioni, orientamenti che invitano i ragazzi a diventare responsabili della propria “voglia di apprendere”.
Tutto questo rende necessario far pesare di più nelle dinamiche dell’insegnamento le caratteristiche degli allievi (le loro diversità, i loro stili, le loro potenzialità).
In quest a prospettiva la distensione lunga del curricolo consente di accompagnare l’alunno lungo il percorso formativo, innestando la progressiva differenziazione dei compiti di apprendimento su una più attenta conoscenza degli allievi.
La continuità non può infatti significare piattezza di proposte.
Anzi, poiché gli insegnanti costituiscono un unico gruppo professionale, nell’istituto diventa possibile una maggiore differenziazione ed articolazione dei percorsi curricolari.
Gli istituti comprensivi possono aiutare a costruire un linguaggio comune, un lessico più attento alle esigenze formative degli alunni (con le parole chiave di ambiente di apprendimento, alfabetizzazione culturale, didattica laboratoriale, sostegno alle motivazioni, cura educativa).
Sull’asse insegnamento/apprendimento si registra così uno spostamento verso il versante “apprendimento”, e quindi un maggior peso dato alle didattiche partecipate, attive, metacognitive.