Elaborare significa rendere più ricca una traccia preesistente, che si mantiene chiaramente ed in modo inequivocabile, senza stravolgimenti, ma con aggiunte che aiutini a mettere in risalto la profondità del messaggio originale.
Adattare significa cogliere l’organico più consono, o uno fra quelli più efficaci a rendere il messaggio stesso, giocando sulle caratteristiche proprie delle voci/strumenti impiegati, dunque differenti da quelle dell’originale.
Direi che è un’arte, una capacità sopraffina, quella di dare una versione nuova, diversa, di un brano magari famoso, di una melodia popolare d’altri tempi, di un canto liturgico per l’assemblea.
Ecco, prendiamo ad esempio le elaborazioni di certi canti legati agli alpini (come non citare “Signore delle Cime”?), che senza esagerazioni sono diventati dei veri e propri inni popolari, delle preghiere musicali, insostituibili nella letteratura dei canti di montagna.
La capacità del M° Bepi de Marzi, di trovare il giusto sapore armonico da dare alle melodie tradizionali, è un raro esempio di equilibrio ed esperienza, che ben si sposa con la coralità amatoriale, per lo più costituita di soli uomini (voci pari) e di conseguenza dalle sonorità del tutto particolare.
Quante versioni si sentono di canzoni come “Quel mazzolin di fiori”, “Il Piave”, “Monte Pasubio”, “Stelutis Alpinis”, “Ta Pum”?…. impossibile quantificarle tutte, ma rendono l’idea di quali e quante siano le varietà possibili attorno ad un canto dato e molte sono di una ricchezza e bellezza sorprendenti.
È senza dubbio la polifonia a regalarci le pagine più interessanti, dato che con la voce e col coro, si ottengono effetti di qualsiasi natura e questo favorisce l’estro dei compositori che recentemente hanno cominciato a cimentarsi anche con trascrizioni dalla musica moderna – caratterizzata dagli strumenti amplificati, dalle percussioni, dalla ricerca timbrica – sfruttando il suono della parola, del respiro, del corpo, mescolandolo con la vocalità tipica di ogni estensione.
La praticità di questo strumento – la voce, di cui tutti siamo in possesso – rende appetibile e coinvolgente la sperimentazione di nuove strade, che si aprono ad un’effettistica in continua evoluzione e pressochè infinita.
Le elaborazioni corali di celebri brani dei Beatles, dei Queen, piuttosto che degli Abba, o di altri cantanti fra quelli che vanno per la maggiore, mettono in risalto l’importanza di una duttilità di fondo, che si estende [finalmente], anche nelle formazioni più classiche, mettendo al servizio della musica, una potenzialità tecnica e di mezzi, spesso relegata alle Accademie delle Belle Arti ed ai Conservatori, scoprendo viceversa, tutta una miride di squisitezze ritmiche e timbriche, tipiche della sfera moderna.
…….e l’organico? …….è davvero così sorprendente, pensare di cantare con un coro – magari cameristico a 4 parti soltanto – che ne so, “Every Breath You Take” dei Police?
Senz’altro, ma – parafrasando il buon Frescobaldi e la sua raccolta di “Canzon da Sonar con ogni sorta di Stromenti” – la possibilità di utilizzare il mezzo che si vuole, dovrà necessariamente portare ad un percorso convincente, che esalti il contenuto in una forma nuova, chiara e senza forzature.
Direi che questo è il passo più difficile: rendere onore alla composizione originale, trasformandola in qualcosa di nuovo, che riesca a coniugare il risultato effettivo con le esigenze legate alle realtà d’organico con cui tutti alla fine si finisce – volenti o nolenti, così oggi, come allora – per fare i conti.