Proviamo a definire il termine “poliritmico”: la poliritmia in musica consiste nell’impiego simultaneo di più ritmi nelle singole voci di una composizione e si differenzia dal semplice impiego occasionale di gruppi irregolari (es. terzine) in una sola voce che produce soltanto una diversione melodica. Una poliritmia, per essere detta tale, richiede che l’impiego simultaneo dei ritmi nelle diverse parti produca una ricchezza di varietà ritmica, piuttosto che semplicemente melodica (wikipedia).
Provo a dirlo con parole mie: la mescolanza continua delle differenti pulsazioni (ad esempio fra 3/4, 5/8, 7/8, 2/4, 12/8), produce continui spostamenti metrici e di conseguenza, le misure accostate fra loro, spesso risultano asimmetriche, creando così delle squisite divagazioni ritmiche.
Certo, ogni tempo seppur differente, dovrà avere una soluzione di continuità col precedente, per dare una sorta di coerenza all’esecuzione della composizione.
Solitamente il metro comune è dato dalla suddivisione, ma capita di trovare un rapporto diverso, a seconda della soluzione di continuità che si sceglie di voler dare al brano musicale.
Mi vengono alla mente le danze popolari tipiche dell’Est Europa, di cui le composizioni dei varii Nazionalisti Europei sono davvero piene, da Bartok, a Grieg, passando da Smetana, piuttosto che Mussorgsky, solo per citarne qualcuno.
Lo stesso Liszt era grandissimo estimatore di questo stile, affatto nuovo per il periodo e davvero molto avanti rispetto ai tempi….
Un aneddoto
Liszt cominciò a suonare… …
Il critico lo ascoltava, già pronto a trionfare con un malcelato sorriso, dopo aver guardato al ritmo della prima pagina…
In effetti in quella pagina c’era un cambio di tempo quasi ad ogni battuta…… con diciassette modifiche in ventiquattro misure……
Appena Liszt ebbe suonato con estrema semplicità alcune battute della lirica, fummo anche noi travolti dal suo entusiasmo e l’ironia del signor Lessmann scomparve………
Liszt esclamò – “Com’è interessante…… com’è nuovo! ……… e che trovate!…… Nessun altro avrebbe potuto scrivere così!”
Il brano in questione era di Mussorgsky e quella selvaggia vitalità era la conseguenza di una fitta poliritmia, costruita con saggio rigore e strepitosa efficacia!
In tutti questi casi, la poliritmia è evidente, dato che è sempre dichiarata da un preciso cambio di tempo, spesso accompagnato da indicazioni precise circa i rapporti da tenere fra i singoli tempi.
Il punto
Nella musica antica, specialmente quella vocale del Rinascimento, le composizioni erano scritte con apparente semplicità, così come i valori ritmici erano neutri, privi di complessità apparente eppure, l’organizzazione metrica data al testo delle parole, spostava continuamente l’accento ritmico, provocando delle vere e proprie poliritmie, dove si alternavano di continuo binario e ternario, talvolta combinati nelle più svariate soluzioni e differenti negli incastri polifonici, con una voce che tagliava l’altra, in una stratificazione ritmica che sconfinava nei ritmi misti, dato che si avevano delle vere e proprie sovrapposizioni di tempi diversi.
La parola dava chiarezza concettuale, così come l’accento metrico faceva luce sulle scelte da operare in chiave ritmica, di conseguenza l’organizzazione delle pulsazioni, i rapporti fra le varie voci e le scelte interpretative, anche se all’inizio del brano si indicava una singola frazione numerica, che serviva per tutta la durata del brano.
È evidente come la stanghetta di battuta non fosse altro che un pretesto per “raggruppare” delle quantità, più comode da leggere proprio perché divise ed organizzate ed era proprio questo il solo ed unico scopo: fare ordine verticale!
Una qualsiasi Ballata di Dowland, anche ad un’analisi distratta, ci apparirà come una naturale intonazione del testo, giocato sulle squisitezze del verso, ora binario, ora tenario, in base all’organizzazione interna della poetica.
La difficoltà era data proprio da come la melodia si sposava al testo, alle scelte di sillabazione e vocalizzo, alle fraseologie: ma non è forse questa, una sicura strada verso una realizzazione coerente, verso le scelte ritmiche più consone e certamente più felici per un’ottima interpretazione musicale?
Quali scelte metriche potremmo ipotizzare, senza un testo come riferimento “sicuro”?
Quali interpretazioni, quali conseguenze?…
Ho sempre pensato che la musica strumentale fosse più vulnerabile, ma ogni musico dovrà compiere comunque delle scelte e portarle avanti, alla ricerca della propria strada…..
Citazioni citabili
“La musica è guardare oltre una porta chiusa, perdere il senso del tempo e dello spazio. Togliere certezze ritmiche e armoniche.”- Angelo Branduardi
“Il ritmo è anche tempo, e dove due ritmi non coincidono – quello della natura e quello dell’uomo – accadono cose strane.”- Cees Nooteboom
Ora confrontiamo alcuni aspetti: di ieri, di oggi, di sempre…..
Nel momento in cui si ragiona di musica, si tende, ahimè, a limitare il discorso al mondo occidentale; il che è un peccato, pensando alla tanto preziosa quanto sconosciuta tradizione musicale orientale, o africana. Ed è su quest’ultima che vorrei concentraste l’attenzione: proprio l’argomento in questione, la tanto studiata poliritmia, è infatti una pietra miliare della musica africana.
Perdonerete la mia scarsa conoscenza in riguardo, ma gli stessi esperti di musica africana, rivelano che molti sono i punti oscuri sull’argomento. La poliritmia esisteva nel continente africano già ai tempi del colonialismo, e si dice i primi esploratori rimasero colpiti dagli sconosciuti intrecci ritmici dei musicisti locali. Lancio una provocazione: è possibile che la poliritmia sia arrivata in Europa con il colonialismo, (non sarebbe la prima volta che l’uomo bianco strappava qualcosa al continente africano), e mescolandosi con l’eredità della musica antica, abbia dato vita alla moderna accezione del termine?
Un secondo spunto nasce da un parallelo, usanza consueta, tra arte figurativa e musica: come Picasso, nel primo Novecento, rimase affascinato dalle maschere africane, così il ritmo (e la poliritmia) dei neri d’America, cosciente o istintivo, divenne membro indispensabile nella nascita di uno dei generi, ancora oggi, più interessanti, della storia della musica: il Jazz. La domanda che vi pongo è: “Gli sviluppi della musica occidentale vanno considerati il prodotto di un processo autoctono, o il risultato di una serie di influenze a livello mondiale?” …Credo che la questione relativa alla poliritmia parli da sola…
Caro Sebastiano, ritengo che lo sviluppo della musica occidentale sia il risultato di una serie di contaminazioni mondiali e non il risultato di un processo autoctono. Come esempio potremmo pensare al folgorante incontro di Debussy con il gamelan e la cultura orientale che finirà per caratterizzarne lo stile e la ricerca timbrica. Ma concentriamoci ora sulla poliritmia, argomento complesso quanto delicato. Questo perché non si conoscono le ragioni, le modalità e il momento storico preciso in cui tutto ciò è nato. Detto ciò, possiamo constatare che nel corso degli anni sono state elaborate delle teorie che hanno evidenziato (come nell’articolo) delle primordiali forme di poliritmia già nel Medioevo e durante il Rinascimento attraverso l’utilizzo di testi che creavano degli spostamenti metrici. Un altro esempio di poliritmia ancora nella sua fase embrionale potrebbe esser fatto pensando alle numerose danze strumentali rinascimentali e barocche in cui spicca la frequente alternanza fra tempi binari e tempi ternari caratterizzando spostamenti di accento. Si passa poi al periodo dei nazionalismi in cui la tendenza ad utilizzare la poliritmia proviene dalle tradizioni popolari, così come quelle successive e in particolare afroamericane che influenzeranno la nascita della musica jazz. A tutto ciò, mi piacerebbe aggiungere l’esperienza e l’utilizzo che Charles Ives fa della poliritmia. Charles Ives (1874-1954), è stato un compositore statunitense molto attento alla ricerca di soluzioni innovative e alla sperimentazione musicale. Questo lo porta a creare fra il 1909 e il 1916 la “Quarta sinfonia” , ossia una composizione in cui è presente un uso talmente spiccato dalla poliritmia da richiedere durante l’esecuzione l’utilizzo in alcuni momenti di due direttori. In questo caso la musica, con l’utilizzo della poliritmia e queste sonorità molto ricercate, arriva ad un livello di difficoltà esecutiva e di comprensione tale da sfiorare l’incomunicabilità. Ma dietro tutto ciò è presente la volontà di porsi delle domande ed esprimere quella condizione di disagio culturale ed esistenziale tipico dell’uomo del primo Novecento. Ecco quindi che la poliritmia viene caricata di accezioni filosofiche e ideologiche e non solo utilizzata come puro strumento e tecnica compositiva. Interessante vero?
https://www.youtube.com/watch?v=eibaIE7Dwso
Molto interessante oserei dire Giovanni…ed è proprio dalla conclusione del tuo commento che vorrei proseguire il discorso: Perché la poliritmia? Quali i significati, quale lo scopo? Come hai ben detto, due sono le strade di significato che la poliritmia apre: una puramente subordinata al prodotto sonoro, una semplice “tecnica compositiva”, l’altra simbolica, portavoce del messaggio del compositore.
Per quanto riguarda la prima, non bisogna assolutamente pensare alla poliritmia come un qualcosa privo di carattere, anzi. Come ben illustra l’articolo, già nel rinascimento, esistevano curiose forme di poliritmia, antenate dell’odierna; parliamo di musica che aderisce al testo, incollandosi alla parola. Pensiamo a Claudio Monteverdi e alla seconda practica: “la musica serva della parola”, ovvero metrica, ritmica, melodia e, in una forma primordiale, armonia, subordinate al significato del testo (seguire l’accento della parola, amplificarne il significato, la drammaticità con determinati accorgimenti stilistici). Qualche secolo più tardi, lo stesso Chopin, parliamo di composizioni per pianoforte, utilizzava a piene mani la poliritmia. Mi riferisco ad esempio al celebre Notturno Op. Posth. n.20 in do diesis minore, dove nel secondo tema coesistono 4/4, e ¾, oppure l’altrettanto nota “Fantasie-Impromptu Op.66” (https://www.youtube.com/watch?v=WEZKKf3Df-4), sempre di Chopin. A mio parere, lo scopo del compositore era puramente estetico ed edonistico.
Rispetto alla seconda, alta è la potenzialità della poliritmia. Ormai quante volte abbiamo ripetuto che l’uomo non si rispecchia più in un evento sonoro piacevole, melodioso? Modernità, guerra, dittatura, ingiustizia sono i leitmotiv del Novecento. L’arte in generale non ricerca più la bellezza. E Quale stato d’animo simboleggia l’utilizzo della poliritmia? Personalmente, se dovessi trasdurre in musica il bombardamento di una città (evento quasi all’ordine del giorno in alcune aree durante la Seconda Guerra Mondiale, sottofondo della vita quotidiana di molti all’epoca), terrei in considerazione l’utilizzo della poliritmia nella sezione delle percussioni ad esempio: il caos, il “disordine”, risultante dalla combinazione verticale di differenti metri potrebbe costituire un’immagine realistica.
A mio parere la poliritmia si è diffusa sì grazie al colonialismo e al contatto con l’Africa dove probabilmente è nata dall’istinto dalla dinamicità che sa conferire,; forse nell’Occidente questo naturale approccio alla musica era visto di malocchio perchè contro la tradizione (non sarebbe certo la prima volta che un’innovazione artistica viene ripudiata perchè contraria alle scuole); sicuramente però, la poliritmia nasce anche da una ricerca che, come scritto nell’articolo ha caratterizzato i compositori nazionalisti dell’ottocento che hanno saputo così conferire un determinato sapore che ricordasse la loro terra, spesso unito al folklore che non badava alle regole grammaticali, ma al risultato ad esempio per la prima danza slava di Dvorak op46 che io adoro. Oltre a questi, la poliritmia ha caratterizzato anche altri compositori più vicini a noi, come Igor Stravinsky: durante il laboratorio di musica di insieme abbiamo affrontato Histoire du Soldat che mi ha aperto un mondo: alcuni strumenti suonano in 6/8, ma le cellule utilizzate rimandano più al binario o viceversa, dando così una notevole impressione di poliritmia che viene accentuata dall’utilizzo delle dinamiche e dai continui cambi di tempo una battuta dopo l’altra: necessario in queste occasioni, è la capacità di costruire un brano partendo da elementi singoli e riuscendo a incastrarli. Per finire vorrei dire a Sebastiano che personalmente associo più questa musica ai dipinti di Kandisky, che vedono la coesistenza in uno stesso piano di linee curve o dritte e colori molto diversi che danno dinamicità e varietà: così io vedo e sento l’accostamento delle varie ritmiche.
DANZE SLAVE DVORAK LINK (spero si aprirà):
https://www.youtube.com/watch?v=TyweU7q6buc
Parlando di Stravinskij mi viene subito in mente l’attenzione che riserva alla componente ritmica in alcune composizioni come nella prima parte di “Petrushka”, nella quale ogni scelta ritmica e metrica è volta a dare un senso di movimento che ricrei il clima di una fiera. L’apparente confusione creata da sovrapposizioni di metriche e cellule ritmiche diverse è quindi volutamente pensata per riprodurre un contesto preciso. Nella stessa parte troviamo infatti strumenti che suonano battute in 7/8 contemporaneamente ad altri che leggono misure da 3/4, continui glissandi e schemi ritmici molto vari. Stravinskij, come è ricordato nell’articolo e da alcuni miei compagni, non è stato di certo il primo a comprendere quanto una scelta ritmica potesse essere determinante, soprattutto considerando l’alternanza e sovrapposizione di ritmiche diverse. L’originalità ritmica a mio parere è uno dei fattori più importanti che contribuiscono a rendere un brano interessante e capace di attirare l’attenzione di un pubblico medio. Verdi decise di puntare sull’essenzialità ritmica per sviluppare melodie che di conseguenza non potevano che essere contagiose, avendo come ossatura quel semplice ma trascinante “zum-pap-pa”; ma fin dal Medioevo era noto che un’alternanza tra tempi binari e ternari era un connubio ideale per scandire momenti più concitati ad altri più calmi, permettendo alla gente di ballare e prendere fiato tra una bassa danza e una alta. E’ interessante osservare come nel Novecento si sviluppino strade opposte. Se da un lato si tende a rifiutare ogni elemento che possa ricondurre alla musica classica tradizionale ribaltando ogni canone, rinnegando ogni rapporto tra silenzio e suono e di conseguenza la stessa natura ritmica, dall’altro lato il ritmo diventa il pilastro portante di molti nuovi generi moderni, primo fra tutti il jazz (come molti hanno già detto), genere in cui diverse eredità culturali convergono all’insegna di colori timbrici particolari e una poliritmia spietata.
Stravinskij: prima parte di Petrushka
https://www.youtube.com/watch?v=aahj2-AXndg
Un evento determinante per la diffusione di questi nuovi stili fino ad allora estranei al mondo occidentale fu senz’altro anche l’Expo di Parigi del 1889, nel quale tutte le nazioni partecipanti portarono il loro modo di fare musica creando così un vero e proprio “miscuglio” di generi. Un esempio che mostra la grande importanza di questo evento lo abbiano sicuramente, come ha scritto anche Giovanni, con Debussy, che si appassionò alla musica orientale (soprattutto al Gamelan) e la assorbì all’interno delle sue composizioni, come possiamo vedere nel brano “Pagodes”, appartenente alla suite per pianoforte “Estampes”.
Un altro autore che rimase colpito da questa mescolanza di generi fu Rimskij-Korsakov, che rimase affascinato dalla musica etnica dell’Algeria, come si può vedere nella sua opera “Mlada”.
Da questa riflessione mi sorgono delle domande spontanee: se non ci fosse stata questa Esposizione universale a mettere in evidenza la bellezza delle varie culture insieme, tra cui anche il concetto di poliritmia, è sicuro ci sarebbero state tutte queste influenze? Con il passare degli anni saremmo arrivati lo stesso a questa mescolanza? E soprattutto, questa tecnica presa dal mondo africano sarebbe stata così influente e usata anche nei generi moderni o sarebbe rimasta come un’espressione di nicchia?
Pagodes:https://www.youtube.com/watch?v=lswHSnJ0Rlw
Nella musica occidentale è possibile trovare la poliritmia e la polimetria in diversi brani appartenenti a periodi storico-musicali ben differenti. Per esempio nel Don Giovanni di Mozart, si sentono suonare due porzioni di organico uguali in due metri differenti (3 quarti e 2 quarti). Successivamente si inserisce un altro piccolo insieme orchestrale negli altri due con un metro di 3 ottavi. Vorrei chiedere ai più esperti conferma su una supposizione che mi vien naturale fare: in questi casi in cui due metri diversi vengono suonati in contemporanea, il direttore batterà la singola pulsazione da un quarto (essendo essa l’unico elemento in comune tra i due metri)? Oppure è necessario l’impiego di due diversi direttori? (sinceramente credo che nel momento in cui ci sia una corrispondenza a livello di pulsazione (e non di accento) la direzione sia gestibile da un singolo direttore.
Altri casi in cui si può sentire la poliritmia è l’apertura della sinfonia di Beethoven n.3, ma la poliritmia è sicuramente un espediente molto più utilizzato nella musica di Brahms. Nel primo movimento della Sonata in Sol Maggiore per Violino op.78 Brahms da forma ad elaborati giochi di fraseggio, spostando l’accento del metro 6 quarti avanti e indietro tra 3+3 e 2+2 o sovrapponendo entrambi nel violino e nel piano. Queste idee si riuniscono nel climax di batt.235 con la stratificazione delle frasi restituendo un effetto che nel diciannovesimo secolo forse solo Brahms avrebbe potuto concepire. Ripongo in questo commento il link per l’ascolto del brano in questione: https://www.youtube.com/watch?v=bheXaiDbr0I. Invito a prestare particolare attenzione al min.10:46 in cui si può notare l’uso che Brahms fa dell’espediente poliritmico nel conferire una enfasi particolare al violino.
Quando si parla di poliritmia si intende una ricerca ritmica che, come è stato già sottolineato, è partita dal continente africano e con il passare degli anni è entrata a far parte della musica occidentale. Questa nuova “tecnica compositiva” ha influito notevolmente anche nei generi moderni, tra i quali il jazz, la fusion e il rock.
Per esperienza personale ho appreso che la difficoltà principale dei brani che utilizzano questo tipo di tecnica sta nell’immedesimarsi nei vari ritmi e renderli più facili possibili all’ascolto, in modo tale che l’ascoltatore percepisca solo in parte la difficoltà della realizzazione.
Ci sono moltissimi esempi di influenze delle poliritmie nei generi musicali moderni; per quanto riguarda il rock in particolare mi viene in mente “Spoonman” dei Soundgarden. La grandezza di questo brano sta proprio nell’utilizzo di sovrapposizioni ritmiche partendo già da un tempo scomodo (ovvero 7/4) e creando un connubio perfetto con il testo, rendendo il tutto anche estremamente musicale.
Per quanto riguarda il genere Jazz/Fusion uno dei brani che può rendere l’idea di questa mescolanza ritmica è senz’altro “Lingus” degli Snarky Puppy, in particolare il solo di tastiera. A 4:18 minuti inizia un ostinato di batteria con degli accordi di tastiera che fin da subito spostano tutti gli accenti della metrica, e successivamente ci troviamo con una melodia improvvisata che con terzine, spostamenti di accenti e pause creano una situazione che sembra quasi perdere di vista la metrica.
Spoonman: https://www.youtube.com/watch?v=T0_zzCLLRvE
Lingus: https://www.youtube.com/watch?v=L_XJ_s5IsQc
Se si parla di poliritmia si intende certo un modo di fare musica spesso più ricercato come suggerisce Alessio che cita i Soundgarder e gli Snarky Puppy, vorrei rilanciare questo concetto della musica poliritmica inserita in un contesto non più classico come ad esempio si parlava di Korsakov o Stravinskij ma in un contesto di un genere forse non tanto ascoltato dalle nuove generazioni ma sempre per me molto emozionante: il cosiddetto Progressive, nel caso del mio esempio il Progressive metal, che fa sue tutte queste caratteristiche poliritmiche unendole alla potenza e alla spettacolarità del metal.
A questo proposito voglio lasciare qui un ascolto che secondo me è emblematico per quanto riguarda il progressive e i suoi “padri” nel mondo del metal ovvero i Dream Theater che con “The dance of Eternity” ci propongono questi ritmi non scontati con momenti poliritmici molto forti tra la chitarra di John Petrucci, virtuoso di fama mondiale, la batteria di Mike Portnoy, che successivamente lascia il gruppo e verrà sostituito nel 2010 da Mike Mangini e le tastiere di Jordan Rudess.
Secondo me questo brano è un modo molto alternativo quasi di approcciarsi da un lato alla musica metal della quale sono appassionato, ma anche alla poliritmia che spesso per i “non addetti ai lavori” suona come strana e quasi poco godibile.
The Dance of Eternity: https://www.youtube.com/watch?v=8Ik9qECIWgc
Per spiegare la poliritmia prendiamo come esempio la musica dell’Africa Occidentale, questa musica è costituita in modo verticale , cioè gli eventi ritmici succedono contemporaneamente.
Nella storia della musica sono rari gli episodi di musica a “strati” sovrapposti , prendiamo come esempio la “ Quarta Sinfonia” di Charles Ives o alcuni brani di Boulez e Stockhausen. Tra i primi a fare largo uso della poliritmia nella musica Jazz ricordiamo i compositori e pianisti del ragtime : Scott Joplin e James Scott. Intorno al 1905 si possono trovare i primi brani dove viene fatto uso della poliritmia 3+3+2 . Brani come “ The Cannonball Rag” di Joseph Northup, utilizza la poliritmia per rendere la sua musica più eccitante ed imprevedibile.
Ricordiamo un famosissimo trombettista : Freddie Keppard , egli ignorò la divisone simmetrica data dalle stanghette di battuta , egli fu il primo a suonare prevalentemente i movimenti deboli del tempo e a costruire le sue composizioni facendo più attenzione al ritmo che alla melodia.
https://youtu.be/aMT_EGXQwyk
https://youtu.be/kWOrVNJ3kOg
https://youtu.be/M2UZY1c6AWU
Come ha già detto Chiara, il grande trombettista Freddie Keppard, amato e venerato da alcune figure importanti del jazz come King Oliver o Louis Armostrong per il suo talento e la sua originale fantasia ritmica.
Attraverso l’uso di terzine, o di periodi di tre semiminime sul tempo di 4/4, Keppard ha creato un fraseggio estremamente poliritmico, sempre basato sulla sovrapposizione di una cellula ternaria su tempi pari. E grazie al suo talento, il patrimonio ritmico della musica africana è potuto arrivare fino a quei jazzisti che sono riusciti a godere di maggior fama e riconoscimenti di lui.
Un altro brano in cui troviamo l’uso della poliritmia e che personalmente l’ho travato molto coinvolgente e piacevole all’ascolto è “Twelfh Street Rag” di Euday Louis Bowman.
https://www.youtube.com/watch?v=tnFWgQT0bZQ (versione per pianoforte)
https://www.youtube.com/watch?v=7pDETDBZCmA
Anche io, come Alessio, ho avuto esperienze dirette con la poliritmia/polimetria e affacciarmisi non è stato molto semplice. Dal punto di vista strumentale l’ho affrontato sia nel brano variazioni sul tema lamenti di Feliciani (contemporaneo) che nell’Elegia op38 di Grieg.
Nel primo caso, si passa da un 3/4 binario, a un 7/8 decisamente destabilizzante e movimentato fino a un 6/8 per poi riprendere. Devo dire che questi continui cambi sono ciò che ha arricchito il brano e che me lo ha fatto amare. Non è stato facile il passaggio a tempi così diversi, bisogna sempre aver presente il direttore e, se qualcuno fatica, rischia di buttare tutti gli altri esecutori e il lavoro all’aria: penso infatti che l’asso della manica in questa tecnica sia la sorpresa e il movimento che però resta ben calcolato e che non è così “caotico” come sembra.
Un’altra esperienza che invece è stata altrettanto difficile, è la realizzazione dell’elegia di Grieg, per pianoforte. Quest’ultimo entra a pieno tra i musicisti nazionalisti che hanno saputo conferire una linea nuova alla musica. La difficoltà in questo brano è stata riuscire a coordinare le mie due mani a mantenere da una parte un ritmo binario, dall’altra incastrare le terzine e i gruppi irregolari, cosa che non mi è venuta subito naturale.
Infine, il terzo approccio che tengo a descrivere è quello con la musica vocale. Due anni fa con la classe, abbiamo preso alcuni brani apparentemente in tempo binario, ma che in realtà, se si faceva caso alla scansione delle sillabe e al senso del testo, portava gli accenti su altri tempi che a volte trasformavano la metrica in un tempo ad esempio ternario. Riconoscere questi punti era stato faticoso perchè l’approccio che si deve avere non deve essere scolastico, ma di senso musicale: dopotutto la poliritmia è istinto, è stimolo, è movimento. Non siete d’accordo?
Cara Aurora, mi trovi molto d’accordo quando affermi che la poliritmia/ polimetria è istinto, stimolo e movimento. Ritengo infatti che il ritmo inteso in senso generale sia un elemento che ci appartenga anche prima del momento in cui nasciamo, basti pensare a quando siamo nel grembo materno ed entriamo in contatto con le pulsazioni del cuore. Ecco quindi che il ritmo è naturale, istintuale così come la sovrapposizione o la variazione di ritmi diversi. Nel mio percorso di studi musicali mi sono imbattuto in varie composizioni soprattutto polimetriche, quella che mi ha colpito maggiormente proprio per la grande variazione ritmica è stata “Three pieces for clarinet solo” di Igor Stravinsky. Quest’ultimo, considerata la sua notorietà, non ha bisogno di essere presentato e perciò mi soffermerò solamente sulla composizione. Come facilmente deducibile dal titolo, questo brano è formato a sua volta da tre brevi composizioni di carattere differente. La prima, che potrebbe essere definita introspettiva, va eseguita sempre piano e molto tranquillo, queste sono le indicazioni fornite dallo stesso Stravinsky. Già in questo primo frammento sono presenti moltissimi cambi di tempo, di conseguenza la frase musicale diventa flessibile, sinuosa e non scontata come sarebbe stata se incastrata in un unico blocco ritmico. Il secondo brano ha un carattere molto differente, si tratta quasi di un’improvvisazione. Deduciamo questo dal fatto che non c’è indicazione ritmica ma soltanto metronomica e l’intero pezzo è suddiviso solamente in due grandi battute che racchiudono momenti quasi a contrasto fra di loro. Simo giunti ora alla terza parte di questa composizione, la più interessante se si considera la polimetria. In 61 battute ci sono 46 cambi di tempo!!!! Gli accenti sono continuamente spostati, il carattere è molto nevrotico e sono presenti riferimenti al ragtime (lo vediamo nelle cellule ritmiche). Insomma si tratta di una composizione breve ma veramente intesa.
Invito all’ascolto: https://www.youtube.com/watch?v=nXUhWj52TCw
Link del commento (spero si aprano):
VARIAZIONI SUL TEMA LAMENTI, FELICIANI
https://www.youtube.com/watch?v=wHrekKnX-HA
ELEGIA N°6 OP38 GRIEG
https://www.youtube.com/watch?v=Af9R5nJ7r74
Se nel precedente commento ho invitato i lettori a rivolgere l’attenzione alla tradizione musicale africana, in questo vorrei riportare la lente d’ingrandimento sul mondo occidentale. E se generalmente quando si parla di poliritmia si fa riferimento al mondo delle percussioni, a me piuttosto sconosciuto, vorrei invece parlare di un’esperienza personale, un brano pianistico che sto studiando al momento.
La poliritmia ha conosciuto un “largo” utilizzo (rimane comunque un fenomeno piuttosto ridotto nelle dimensioni, almeno nell’area europea) solo nel Novecento, ma come cita l’articolo, e come hanno sottolineato i compagni, qualche timida forma di sovrapposizione di cellule ritmiche differenti risale addirittura alla musica antica.
L’autore del brano in analisi è nientemeno che Beethoven, il soggetto la Sonata Op.14 n.1, nello specifico il terzo tempo (https://www.youtube.com/watch?v=jiRbJ26qw5c&t=681s minuto 8:30). Un esperto nell’argomento potrebbe obiettare la scelta di Beethoven per parlare di poliritmia, suggerendo un Bartok, o lo stesso Debussy, ma d’altronde questa è l’esperienza che io ho intrapreso; ritengo inoltre che l’esempio che riporto sia semplice e chiaro per delucidare la questione. Nel terzo tempo per l’appunto, appare con frequenza un disegno che la mano destra occupata a cantare la melodia, in 2/2, e al contempo, la sinistra, tumultuosa, realizzare fiumi di terzine. Si vengono a creare degli incastri ritmici verticali non convenzionali, che tuttavia, celati dietro la dolcezza delle linee di Beethoven, non creano tensione all’ascolto.
Adesso, l’intervento e la scelta dell’esempio sono pretestuosi; è Beethoven come potrebbe essere un qualsiasi brano studiato da un altro aspirante musicista. La questione che vorrei scomodare è ancora una volta la storia di questo fenomeno, che appare come un fantasma qua e la nel mondo e nella storia, e proprio per questo non va esclusivamente limitata ad un genere musicale, ad un’area geografica o ad un periodo, come testimonia l’ascolto proposto. Sono curioso: ad altri è capitato di eseguire una composizione, non per forza Novecentesca, in cui compare traccia di poliritmia (verticale o orizzontale) o polimetria?
la poliritmia si trova in molti pezzi musicali, a me viene in mente l’improvviso fantasia di chopin dove tutto il tema principale ha il ritmo delle due mani sfasate: il pezzo e in 2 mezzi, per ogni pulsazione si hanno 8 sedicesimi della destra e un gruppo di 6 sestine nella sinistra, creando, insieme a tutte le note cromatiche di passaggio, una mescolanza di suoni molto ricca, perche la maggior parte delle note non suonano insieme alle altre, sembra piu complessa con tanti piu suoni.
la mescolanza delle pulsazioni diverse che si alternano lungo tutto il brano musicale, se non erro, viene definita polimetria, e non poliritmia come scritto nell’articolo. questo ultimo metodo di scrittura comporta una variazione continua di dove cade l’accento metrico di ogni battuta/frammento/frase, conferendo una sensazione di instabilita; secondo la mia esperienza viene trovato piu spesso nella musica contemporanea come bartok, skrijabin… e a me personalmente non e gradito tanto quanto la semplice polimetria (che lasciando invariato il metro non cambia l’andamento del brano).
un altro tipo di polimetria si trova quando un compositore sovrappone metri diversi contemporaneamente a voci diverse che suonano insieme: questo tipo di polimetria l’ho soltanto incontrata in via teorica quando me l’hanno spiegato a linguaggio musicale in conservatorio, ma non l’ho mai visto utilizzato veramente in un brano conosciuto.
La poliritmia è l’esecuzione di più ritmi nello stesso momento. La polimetria invece è l’utilizzo di tempi diversi durante l’andamento della melodia, come ad esempio il passaggio da un 4/4 ad un 5/4.
Anche io, come Giulio, vorrei prendere come esempio l’improvviso fantasia di Chopin. Vorrei prenderlo in considerazione perché è un brano che ho avuto la possibilità di studiare tre anni fa. Ricordo ancora che non è stato per niente facile cimentarmi nello studio questo brano, che è un esempio lampante di poliritmia: la mano destra per ogni pulsazione deve eseguire 8 sedicesimi, la mano sinistra per ogni pulsazione deve eseguire un gruppo di sestine. Ho dovuto dedicare molto tempo a cercare di far corrispondere, sotto indicazione del professore, le cellule ritmiche delle due mani. Se non si presta attenzione e, se l’esecutore non è preciso, l’ascoltatore può avere la sensazione che si sta suonando una composizione confusa e costruita senza particolari riferimenti.
La maggior parte delle note della mano destra, non coincide con le note della mano sinistra. Solo alcune note tra le due mani corrispondono. Questo permette all’esecutore di orientarsi ritmicamente. I suoni della mano destra uniti con quelli della mano sinistra permettono di avere, come dice giustamente Giulio, una mescolanza di suoni molto ricca. I suoni devono essere molto chiari e precisi per trasmettere all’ascoltatore quella che è la linea melodica del brano.
In Occidente la dimensione ritmico metrica non è stata molto indagata e utilizzata a livello pratico compositivo rispetto alle grandi potenzialità che offre. Penso che la musica occidentale si sia concentrata più sull’aspetto polifonico armonico, a differenza dell’Europa orientale in cui troviamo degli aspetti ritmici davvero particolari, tanto che alcune figure importanti della musica occidentale nel secondo Novecento, come Don Ellis e Frank Zappa, si sono interessanti ad essi.
Un brano che voglio citare è Take Five di Paul Desmond, uno dei primi famosi esempi esempi di manipolazioni della pulsazione temporale orizzontale. Il brano è scritto e suonato in 5/4, ma va inteso in 10/8, così da percepire i due macro impulsi più lunghi e i due più corti in rapporto tra loro di 3/2.
https://www.youtube.com/watch?v=PHdU5sHigYQ
Un’altra canzone secondo me molto interessante dal punto di vista poliritmico e di fatto ispirata al lavoro di Frank Zappa è “La vendetta del fantasma formaggino” di Elio e le storie tese, con Christian Meyer alla batteria e Faso al basso, che insieme sono riusciti a dare vita a dei ritmi e a delle armonie molto particolari, con stralci anche di altre canzoni pop italiane tra cui alcuni passaggi di “Prisencolinensinainciusol” di Celentano.
Altri elementi poliritmici si trovano anche in altre canzoni di Elio come ad esempio “Il vitello dai piedi di balsa”, un ritmo in 17/16, che di base è un 4/4 al quale viene aggiunto un sedicesimo finale.
Al termine di questa sezione c’è il salsa il 7/4 che da poi il ritmo al resto della canzone.
LINK AL COMMENTO
Il vitello dai piedi di balsa: https://www.youtube.com/watch?v=kcxz53LgnPY
La vendetta dal fantasma formaggino: https://www.youtube.com/watch?v=kLwrwci5nAo
Credo che la tecnica della poliritmia riassuma in sé quello che è un carattere costitutivo della musica, ovvero l’istintualità. Lo straordinario coinvolgimento dovuto ad una musica ritmica ritengo sia uno dei motivi che portarono all’approdo della poliritmia in contesti come quelli medioevali o rinascimentali.
Se penso però al valore della poliritmia in altri contesti, come il Romanticismo, in cui prende avvio un discorso legato all’interiorità dell’artista, portato poi alle estreme conseguenze con l’Espressionismo, il suo valore cambia decisamente di segno. La poliritmia, ovvero la compresenza di più ritmi, può rappresentare la complessità dell’animo umano, le mille sfaccettature che lo compongono e il conseguente bisogno di esprimerle attraverso un ampliamento del discorso.
La ritmica viene così adattata al messaggio cui la musica si fa portatrice, penso ad esempio alla Sagra della primavera di Stravinskij (https://www.youtube.com/watch?v=0XyTWt82XQM), in particolare ne Gli auguri primaverili-Danze delle adolescenti, dove gli archi assumono un carattere fortemente percussivo, una novità assoluta rispetto alla consuetudine e decisamente inaspettato se si pensa al tema. Quest’ultimo viene reinterpretato in chiave personale da Stravinskij, e la manipolazione del ritmo diventa determinante in questo processo.
Il lavoro rispetto alla poliritmia sembra così essere il naturale proseguimento di quel percorso di allontanamento dal tonale, con la ridefinizione di un altro dei parametri fondamentali della musica, il ritmo.
Come la tonalità aveva esaurito i suoi argomenti, lo stesso vale per la ritmica, che necessita di essere studiata e sviluppata, reclamando un proprio posto nel panorama musicale occidentale.
Sono pienamente d’accordo con Alexandra, in quanto anche secondo me la poliritmia, varcate le soglie del Novecento, può sicuramente essere stata concepita come una sorta di “nuova via” per allontanarsi dal tonale e dalla tradizione, come dice la mia compagna, e per creare quelle sperimentazioni di cui si aveva tanto bisogno in un’epoca di profonde crisi, trasformazioni e rivoluzioni in ogni ambito. Penso che essa consista ovviamente in una risultante di numerose influenze molto diverse fra loro e non in un processo a se stante. Sicuramente è sempre stata presente all’intero della nostra cultura, come dice l’articolo, sia in maniera “dichiarata” che “sottintesa”: pensiamo per esempio alle composizioni rinascimentali, le quali si servivano in particolare del testo per i continui cambi di accento, fino ad arrivare ai nazionalismi, dove la caratteristica poliritmica veniva esplicitata dalle danze e dalle melodie tradizionali. È anche vero però che all’interno della nostra cultura la poliritmia è sempre rimasta un po’ ai margini della musica, e non ne occupa una parte così vasta, come invece accade per esempio all’interno delle tradizioni musicali africane, nelle quali la poliritmia è insita: tutto questo almeno fino all’avvento delle avanguardie novecentesche. Arrivati a questo punto, si sente la necessità di cambiare, di adeguare la musica in maniera tale da riuscire ad esprimere attraverso di essa un mondo di profondi stravolgimenti, situazione che si ripercuote anche all’interno dell’animo umano (giustamente Alexandra citava l’Espressionismo e l’istintualità degli uomini). Proprio per questo mi sento di dire che l’influenza esterna è stata tanta, avvenuta in particolare grazie al fenomeno del colonialismo, ma che però la poliritmia si è fatta sentire, per necessità o spontaneamente, in particolar modo all’interno della musica contemporanea, facendola emergere per come la conosciamo oggi.
Parlando di poliritmia vorrei addentrarmi in una delle pagine orchestrali più conosciute di Igor Stravinsky. L’elemento ritmico è sicuramente il suo lascito più influente sulle generazioni successive oltre a mostrare un lato davvero duro della musica. La pagina in questione è la Sagra della primavera. È enormemente conosciuta per la sua difficoltà e basta scrutare velocemente la partitura per immergersi in un mondo ritmico a livelli assoluti. Più volte mi sono addentrato in questa musica e proprio ora con il senno di poi raggruppo alcune precedenti constatazioni. La pagina musicale in questione presenta una mistura di polimetria e poliritmia che come sappiamo sono cose differenti. La polimetria la ritroviamo nell’accostamento molto vicino di metri musicali differenti (ci sono alcune sezioni del balletto in questione dove il metro cambia ogni battuta e parliamo di metri talvolta molto inusuali come 2/16). La poliritmia invece la troviamo nella sovrapposizione di più gruppi o schemi ritmici differenti all’interno della stessa battuta. Se guardiamo la partitura del brano in questione ci accorgiamo della complessità ritmica che obbliga spesso il direttore a dover accentare solo il battere di ogni misura per non creare ulteriore confusione a quella che già la musica provoca. Voglio però mettere in risalto una seconda questione: la Sagra della Primavera è costruita sulla narrazione di un sacrificio di una giovane vergine in una tribù pagana, probabilmente quelle stesse tribù che portavano avanti secoli di tradizione musicale fatta prevalentemente dal ritmo in tutte le sue sfaccettature; inoltre il brano viene storicamente presto associato al dipinto famosissimo di Matisse, la danza, che parla di musica e ritmo solo nel guardarlo e che ancora una volta ci rimanda alla tradizione delle tribù pagane. Tre coincidenze? Oppure tre elementi che trovano una corrispondenza salda nell’elemento ritmico? Secondo me non sono semplicemente coincidenze e il genio di Stravinsky è stato proprio nel mettere in evidenza questo elemento ritmico fatto di accenti, cambiamenti metrici e sovrapposizioni ritmiche in una narrazione musicale dall’impatto molto forte.
Link: https://youtu.be/rP42C-4zL3w
La poliritmia implica l’impiego di diverse figure ritmiche tra le diverse parti e in modo contemporaneo, al fine di ottenere una maggiore varietà ritmica piuttosto che melodica.
Questo cambiamento è molto interessante se pensiamo alla tradizione musicale occidentale, al suo rigore ritmico e all’importanza della melodia.
Tuttavia è documentato storicamente che la poliritmia è comunque radicata nella tradizione occidentale, in particolare nella musica rinascimentale che impiega elementi ritmici particolari per rispecchiare il significato e gli accenti definiti dal testo.
L’interpretazione ritmica guidata dagli accenti del testo è sicuramente una delle scelte più coerenti per affrontare una composizione e soprattutto una delle scelte che garantiscono un buon risultato.
Nonostante questo, riferendomi all’articolo, io che credo la poliritmia porti con se un determinato effetto espressivo che non richiede necessariamente l’ausilio di un testo per garantirne il risultato. In poche parole, la musica possiede un linguaggio indipendente e la poliritmia contribuisce a trasmetterlo.
Mi viene in mente ad esempio la Rhapsodie di Debussy dove l’elemento ritmico supera l’aspetto numerico e schematico per trasmettere, invece, un messaggio espressivo e timbrico diverso senza nessun legame al testo.
https://www.youtube.com/watch?v=iaH3He7xct0
La mia prima esperienza con la poliritmia è stata con uno studio di timpani, “ to Karen, SCHERZO, for three timpani Unacompained” di Mitchell Peters.
Ascolto:
https://www.youtube.com/watch?v=Emu9nJa-mto
Partitura:
https://www.google.it/search?q=https://www.percussion-brandt.de/Peters-Mitchell-Scherzo-for-Timpani/en&client=safari&channel=mac_bm&tbm=isch&source=iu&ictx=1&fir=mBv2AE5IGP05rM%252C1H3qLX5pmvrbwM%252C_&vet=1&usg=AI4_-kR-gNLVhyGxrad9pbt9cAefBr_S1A&sa=X&ved=2ahUKEwi52sLftY_wAhXxgP0HHQQMAb4Q9QF6BAgPEAE&biw=1920&bih=924#imgrc=mBv2AE5IGP05rM
Il poliritmo in questione si trova alla sezione C della partitura, ha una durata di 9 battute.
Panoramica del brano:
Mitchell Peter è stato il più grande timpanista della Los Angeles Phiharmonic orchestra degli ultimi tempi. Il percussionista è morto da pochi anni e ha lasciato varie composizioni che vanno ad arricchire il repertorio percussionistico di tutto il mondo. Il compositore scrive principalmente per marimba ,ma quando si esibisce da solista esegue diversi sui studi principalmente per timpani. Di fatto lo scherzo qui citato è uno degli studi che il percussionista ha eseguito in diversi concerti.
Esiste anche una versione orchestrale di questo scherzo che però non è stata composta da Mitchell Peters, ma da un compositore che prese ispirazione da questo studio per timpani.
Quando mi è stato proposto questo tipo di studio mi sono imbattuto nel poliritmo che si trova nella sezione C del brano. Il poliritmo in questione è in tempo di 3/8 dove una mano esegue gli ottavi della suddivisione del tempo, mentre l’altra mano esegue degli ottavi puntati. Il gioco che si crea è il 2 contro il 3, ternario contro binario. Il poliritmo è semplice nella sua composizione, infatti fa parte dei poliritmi elementari, ma mi ricordo che quando mi sono imbattuto in questo tipo di figurazione ho riscontrato alcune difficoltà, sopratutto coordinative e di tenuta della pulsazione. Per impararlo mi è stato consigliato di non studiare le due mani in modo separato ma di arrivare a comprendere il ritmo unitario che dal poliritmo scaturiva. Ovvero, per imparare un poliritmo è bene imparare il tipo di ritmica che si va a creare, pensando quindi il poliritmo nella sua unità, piuttosto che pensarlo diviso nelle due voci.
A mio parere i poliritmi sono molto belli da ascoltare, ma soprattutto quelli più complessi, sono difficili da suonare, a maggior ragione in strumenti che comprendono la coordinazione di più di un’arto. Nel mio modo di suonare, soprattuto se mi trovo in un contesto di improvvisazione, non mi viene naturale usare i poliritmi anche perchè il rischio di perdere la pulsazione è sempre dietro l’angolo.
Da definizione, la poliritmia è l’esecuzione in contemporanea di più ritmi (ad esempio un ritmo in tre su uno in quattro). Una battuta ha infatti una precisa durata temporale che può essere suddivisa in parti diverse pur mantenendo la stessa lunghezza.
Il mio primo pensiero, quando si parla di poliritmia, va sicuramente alla musica popolare africana. Questa musica infatti è molto ritmata e gli strumenti utilizzati principalmente sono le percussioni. C’è questo grande utilizzo di ritmi perché molto spesso questa musica non è fine a se stessa ma serve a fare da accompagnamento a balli (anche questi molto caratteristici, con vestiti con colori molto accesi e vistosi), e a canti. Nel seguente link possiamo ascoltare la poliritmia fatta dai strumenti a percussione, dai balli, e in alcune parti anche canti tipici sud africani. https://www.youtube.com/watch?v=s4Y3q3R6V_8 .
Da questa musica africana (soprattutto dai suoi ritmi) deriva un altro tipo di musica, e cioè quella Jazz. Questo aspetto lo si può ascoltare molto bene in Thelonious Monk che è stato un pianista e compositore statunitense, conosciuto per il suo singolare stile d’improvvisazione e per il consistente contributo al repertorio del jazz.
Come ho già accennato, in Monk sono evidenti le radici più profonde della musica africana inserite in una dimensione fortemente innovativa. Ha scritto circa 70 composizioni che nella maggior parte possiamo ascoltare una grande varietà di poliritmia, con frequenti spostamenti di accenti.
Queste caratteristiche le possiamo trovare all’interno del seguente brano, forse quello più famoso da lui composto. https://www.youtube.com/watch?v=cWOz9mILqbA
Ciao Patrick, vorrei aggiungere qualcosa al tuo contributo. Nella cultura musicale africana, da un punto di vista filosofico, la poliritmia può simboleggiare la sfida a cui i momenti della vita più stressanti ed emotivamente intensi ci sottopongono. Improvvisi cambi di ritmo potrebbero voler stimolare a preservare una propria motivazione personale mentre ci si imbatte con le sfide della vita. Molte lingue africane non hanno nemmeno una parola per riferirsi “ritmo” o “musica”. Dal punto vista della cultura africana, i diversi ritmi rappresentano la vera essenza della vita stessa. Questi ritmi possono incarnare le persone stesse e simboleggiare l’interdipendenza nelle relazioni umane.
Grazie Andrea per avermi offerto questa visione della poliritmia nella musica africana. É molto bella l’interpretazione filosofica che dai a questa musica e in particolare della poliritmia, e cioè che quei improvvisi cambi di tempo o sovrapposizioni ritmiche, rappresentano le sfide che ci vengono poste dalla vita e che grazie alla musica possiamo risolvere, o almeno alleviare i momenti duri. Questa musica infatti è l’incarnazione dei sentimenti delle persone perché, oltre a distinguersi per la sua poliritmia, ha la caratteristica che si trasmette in genere oralmente, dunque non esistono molti spartiti o forme scritte in cui è possibile rinvenire delle melodie. Tutto viene creato e comunicato direttamente ed è per questo che un aspetto importantissimo è dato dall’improvvisazione, e appunto all’interno delle improvvisazioni sono racchiusi i sentimenti delle persone.
Mi ha colpito molto la parte dell’articolo che tratta dell’importanza del testo. Pensandoci un po’ su, mi sono resa conto che forse le parole sono davvero l’elemento da prendere come punto di riferimento, una sorta di “fondamenta” sopra la quale costruire la linea melodica. Se infatti proviamo a considerare una composizione nella quale la melodia è anche molto bella e orecchiabile, ma il testo è completamente fuori luogo, senza gli accenti messi al posto giusto, ci troveremo fortemente a disagio, spiazzati, spaesati, nonostante magari la parte melodica sia eccezionale. Viceversa, con una melodia discreta, forse non otterremo il massimo piacere dall’ascolto, però proveremmo un certo senso di sollievo a sentire che “tutto quadra”, in primis il testo. A questo punto mi viene da pensare alla seconda pratica monteverdiana, che sanciva la predominanza dei testi rispetto alla musica, alla melodia. Sempre di questo periodo storico (1600) fanno parte i numerosissimi madrigali, nei quali i cambi di accenti dati dal testo spostano costantemente l’accento ritmico, creando una sorta di poliritmia “nascosta”, dove si alternano continuamente i tempi binari e ternari, nonostante tutto il brano venga caratterizzato da una sola misura metrica dall’inizio alla fine. E questo si ripercuote anche nella musica polifonica, dove la stanghetta che solitamente separa più battute di una stessa durata, consiste solo in un punto di riferimento per dare ordine verticale fra tutti i complicatissimi incastri ritmici delle varie voci. Propongo ora alcuni ascolti a parer mio esaustivi, entrambi di Claudio Monteverdi, che avevo già affrontato negli anni passati ma che ora, alla luce di queste nuove conoscenze e informazioni, mi sembrano ancora più significativi: Ecco Mormorar l’Onde (https://youtu.be/YUgIJ212IVg) per la sua “poliritmia sottintesa” e Zefiro Torna e l’Bel Tempo Rimena (https://youtu.be/9105NkJxjGA) che, con i suoi frequenti e improvvisi cambi di metrica, può essere un primo accenno alla poliritmia.
Rispetto a quella che è la mia esperienza con la poliritmia, ho avuto l’occasione durante una lezione di pianoforte di sperimentare degli esercizi propedeutici rispetto a questa tecnica.
Si trattava di semplici esercizi che prevedevano la messa in contemporanea di due ritmi diversi, per esempio in 2/4 con ottavi nella mano sinistra e terzine nella mano destra.
Apparentemente facili, ma in realtà non così immediati, almeno per me.
Il metodo però che mi è stato offerto per affrontare questo tipo di esercizio si è rivelato particolarmente efficace. Come prima cosa dovevo infatti capire quali erano gli accenti legati ad una specifica figura ritmica e per farlo ho impiegato la voce, sillabando delle frasi che corrispondessero alla suddivisione riportata sullo spartito. Una volta compiuto questo passaggio mi è stato possibile trasferire il ritmo sulla tastiera.
La sensazione era quella di assoluta indipendenza tra le mani, accentuata dal fatto che si trattava di due schemi ritmici differenti e quindi i riferimenti per la messa insieme delle due mani non erano subito chiari. In riferimento a ciò che dice Giorgia mi trovo pienamente d’accordo rispetto al valore del testo, in quanto ho sperimentato in prima persona la rilevanza della voce nell’approcciarsi alla poliritmia.
Vorrei allacciarmi al commento di Alexandra e condividere un pensiero sulla presenza del ritmo e più in specifico della poliritmia e della polimetria nel campo didattico-musicale. Spesso, nello studio del corno, mi sono imbattuto in piccoli studi dove la componente polimetrica caratterizzava lo scopo degli esercizi. Questa sensibilità ritmica è nata soprattutto nel novecento; infatti, andando a scartabellare nei metodi più datati, del 1700 o del 1800 la componente polimetrica o addirittura poliritmica era totalmente assente. Ovviamente per uno strumento monodico quale il corno francese è assai complicato trovare degli studi poliritmici ma i giochi metrici li si trova spesso. Il classico gioco binario/ternario che va a costruire il fenomeno musicale chiamato emiolia (es.: in un metro di 6/8, la battuta viene liberamente suddivisa in due raggruppamenti da tre o in tre raggruppamenti da due giocando e alternando con gli accenti in modi differenti) va a creare un associazione mentale e percettiva che separa il metro di superficie (quello individuato dall’ascoltatore) dal metro reale (quello scritto sulla partitura ed eseguito dal musicista).
Nell’ambito didattico questa sensibilizzazione per la componete polimetrica è nata proprio quando la musica cominciò a proporre brani e pagine di musica che presentavano difficoltà ritmiche. La necessità ha acceso il bisogno e così nei metodi del 1900 troviamo pezzi che presentano variazioni ritmiche e metriche di un certo spessore, proprio per sensibilizzare il musicista a questo tipo di musica, assolutamente non immediata. Il discorso di metro di superficie e metro reale va sicuramente a riallacciarsi con l’aggettivo attribuito, nel titolo, alla polimetria: dichiarata o sottintesa. Alla fine, il pezzo polimetrico anche se è interpretato scorrettamente dall’ascoltatore lascia comunque un interesse, dovuto appunto alla superficialità del metro, spesso confuso con la sua realtà. Per concludere, ritengo che questa nuova tipologia di studi sia molto utile per lo studente in quanto lo pone di fronte a problemi anche di analisi ritmica, che precedono ancor prima quelli dell’esecuzione. Problemi che una volta sciolti rendono più comprensibile la lettura di una pagina musicale come quella di cui ho parlato nel primo commento.
Ho trovato tanto interessante il contributo di Giorgia che mi ha fatto riflettere sulla necessità dell’aderenza tra musica e testo, questione centrale a partire dal Seicento. Per la sua realizzazione è indispensabile assecondare il ritmo e gli accenti insiti alle parole, oltre che considerare in che modo una scelta musicale e ritmica possa esprimere al meglio un concetto contenuto nella parola che accompagna. La pratica monteverdiana, che insegue tale fine, è quindi applicata in opere in cui poliritmia, cambiamenti di tempo e da binario a ternario sono davvero frequenti in quanto sono volti a rispettare fedelmente il testo. Negli scorsi anni mi è capitato più volte di prendere in esame alcune opere di Monteverdi, come “Tancredi e Clorinda”, potendo notare quanto ogni scelta musicale e ritmica fosse volta a creare un determinato effetto; per esempio a dei momenti lenti e espressivi in 4/4 seguono altri in 3/1 che rendono molto l’idea del trotto del cavallo che si fanno via via più concitati. Quest’opera presenta molti passaggi in cui tempi binari e ternari coesistono e in alcuni casi i primi non si esauriscono all’interno della battuta ma vengono spostati a cavallo di essa. Come Giorgia sottolineava, la differenza sostanziale tra il trattamento della parola nell’opera e nei madrigali è che in quest’ultima gli accenti delle parole non cadono sempre sul tempo forte della battuta ma, di conseguenza, possono dare vita a cellule ternarie in tempi binari. Trattando questo argomento avevo potuto provare concretamente a realizzare l’aspetto ritmico di alcune strofe, sia nel metodo utilizzato nell’opera, che in quello dei madrigali. Devo ammettere che avevo affrontato questo lavoro con non poche difficoltà. Paradossalmente la coincidenza tra gli accenti delle parole e i tempi forti delle battute non mi è parsa più difficile della realizzazione, apparentemente più libera del “metodo madrigalistico”, nel quale si creavano situazioni ternarie in tempi binari. Ricordo che mi pareva molto più naturale seguire le suddivisioni in battute e riconoscere una consonanza tra accento della parola e accento (inteso come tempo forte) della misura. Devo tuttavia riconoscere che è stato un esercizio piuttosto stimolante in quanto è stata una delle prime volte in cui ho riflettuto sulla questione dell’aderenza tra le parole, con i loro accenti, la loro naturale ritmicità e il loro significato, e la musica, con le sue esigenze ritmiche, estetiche e espressive. Inoltre tale esperimento mi ha spinto a pensare la frase musicale andando oltre le suddivisioni in battute, a considerare la possibilità di utilizzare ritmi ternari in tempi binari (e viceversa) e più in generale a riflettere sull’uso della poliritmia, espediente che ho poi ritrovato in molti altri pezzi, di generi e epoche molto differenti.
Ho trovato molto interessante la riflessione di Giorgia sull’importanza della parola in una composizione poliritmica. Condivido pienamente il punto del commento in cui dichiara che una composizione con un testo che “non quadra” o non sembra adatto al contesto, dà l’impressione di essere una composizione “sbagliata”. Subito ci accorgiamo che qualcosa non va.
Questo perché il testo deve essere, almeno dal mio punto di vista, considerato dal compositore come parte integrante e fondamentale di quello che sarà poi il risultato finale che verrà fatto ascoltare. Nulla può essere lasciato al caso. Questo forse anche perché la poliritmia, essendo molto complessa, necessita di studio e attenzione da parte dell’esecutore ai riferimenti ritmici presenti nella partitura. Questo aspetto penso sia molto importante da sottolineare. E lo faccio ricollegandomi al mio precedente commento: la partitura deve esser molto chiara e precisa per permettere all’esecutore di suonare il brano nel modo migliore possibile.
Se la parola, che è parte integrante della composizione, va a rendere più confusionaria una situazione che già di per sé lo è, allora penso che ci sia qualcosa di sbagliato. Ritengo che la parola, sia in una composizione poliritmica che in una polimetrica, abbia il compito di sottolineare quei riferimenti ritmici che magari colui che ascolta non riesce ad avere chiari solo ascoltando la parte strumentale. Questo aspetto riguardo l’importanza dei testi, che viene sottolineato anche da Giorgia, ci fa pensare alla seconda pratica monteverdiana.
La citazione di Branduardi “La musica è guardare oltre una porta chiusa, perdere il senso del tempo e dello spazio. Togliere certezze ritmiche e armoniche.” esprime perfettamente ciò che è avvenuto concretamente nel Novecento, periodo in cui ogni tipo di certezza viene a meno. Al crollo delle certezze valoriali (in ambito filosofico, religioso, morale e sociale) corrisponde la consapevolezza della pluralità di una realtà che non può essere interpretata da un unico punto di vista. Analogamente nell’ambito della musica colta si intraprende una strada che ripudia ogni certezza tipica dei canoni tradizionali. I più esperti di musica riconosceranno tale strada nel superamento del sistema tonale ma chiunque può percepire la sterzata della componente ritmica che assume un carattere nuovo nei generi più moderni, tra i quali il jazz, il rock e il metal (come evidenziava Gabriele). Ma in generale possiamo notare che un brano in 4/4 molto spesso presenterà al suo interno figurazioni ritmiche ternarie o diventerà direttamente un 12/8 per esempio. Oltre alla compresenza di ritmi diversi, infatti, è molto frequente l’uso di poliritmie, ossia il susseguirsi di metriche diverse. Ciò è presente nelle Sei bagattelle di Ligeti, soprattutto nella seconda, in cui battute in 3/2 si alternano ad altre in 2/2, passando per un 5/4 e indicazioni metriche insolite come 6/4+3/2. La ritmica e i continui cambi di tempo sono gli aspetti a mio parere più ostici e problematici da affrontare quando si studia questo quintetto a fiati, ma sono allo stesso tempo i tratti distintivi di queste sei bagatelle particolari e originali ( https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=G5ks1g7VrQI ).
In alcuni commenti ho visto l’interrogarsi sulla nascita della poliritmia e di come sia arrivata nel mondo occidentale.
Provo a dare una mia risposta.
È da notare come la poliritmia deriva principalmente dell’africa, e dalle zone dell’America latina. In queste zone in antichità e tutt’ora oggi (nel caso dell’africa) le persone credevano principalmente in religioni politeiste, caratterizzate da riti e tributi in onore agli dei. La musica veniva usata come tramite tra dio e l’uomo, e la preghiera si caratterizzava spesso in musiche e danze in onore agli dei.
Nel mio immaginario lo vedo così: uno si mette a percuote una pelle di animale in tensione, un’altro picchia un bastone, un’altro percuote due pietre, altri battono le mani, altri cantano e altri danzano, ma tutto in modo estemporaneo, ognuno seguendo il proprio istinto, ognuno eseguendo un ritmo diverso dall’altro, senza distinzione tra binario e ternario e senza alcuna limitazione metrica. Questo va a creare un’insieme di ritmiche diverse che sono caratterizzate da una forte componente poliritmica, proprio perchè derivante dell’istinto primitivo dell’uomo.
Eco la nascita della poliritmia.
Però rimane confinata ai luoghi dove si è sviluppata, come fa ad arrivare in occidente?
Secondo me è qui che entra i gioco la danza, che diventa il mezzo per questa contaminazione occidentale verso la poliritmia.
Con il tempo queste ritmiche entrano a far parte della quotidianità dell’uomo e si consolidano. Queste ritmiche vengono tramandate in generazione in generazione e dal sacro passano al profano, fino a prendere una determinata forma. A questa musica speso venivano attribuiti precisi passi di danza che piano piano, anch’esse, dal sacro passano al profano.
È un dato di fatto che la musica in America Latina e in africa è caratterizzata principalmente dalle danze, ed è da li che nasce la poliritmia e arriva in occidente.
La spina dorsale di ogni danza, qualsiasi essa sia, è il ritmo.
La poliritmia crea ritmi interessanti, incalzanti, ma sopratutto l’accento ritmico non si trova più solamente sul battere della battuta ma si sposta all’interno della battuta, e questo crea una vitalità ritmica che porta al movimento.
Se a questo si aggiunge un continuo gioco di sincopi tra le varie voci e l’utilizzo di ostinati ritmici, (chiamati anche clave) si va a creare quello che noi oggi definiamo musica latin.
Questo è il processo con cui nascono danze come la samba, la salsa, la rumba, il jive, il passo doble, afrobeat e la morna, dove nel loro stile musicale sono impregniate di poliritmia.
Sicuramente la colonizzazione di questi luoghi, da parte dei paesi occidentali porta un’influenza musicale nuova in occidente.
Sicuramente tanti musicisti entrano in contatto con questi tipi di musica grazie a numerosi spostamenti dell’Europa all’America.
Ma, sopratutto dalla seconda metà del ventesimo secolo, in America, poi in tutto l’occidente, nelle sale da ballo aumenta la richiesta di questi tipi di danza che portano i musicisti ad avvicinarsi con molto interesse a questo tipo di musica, danze e ritmica.
Ed è così che secondo me il mondo occidentale viene definitivamente invaso dalla poliritmia.
Come già citato nell’articolo ma anche dai miei compagni di classe la poliritmia è una tecnica antica. Uno degli esempi più utilizzati di poliritmia è quello di utilizzare valori binari in tempi ternari o viceversa generando uno dei più antichi ritmi chiamato “hemiola”, molto utilizzato nella musica africana, nelle musiche occidentali, ma anche nel tango. La nostra musica occidentale è stata molto influenzata dalla poliritmia africana che spesso organizza i ritmi con accenti che contrastano con il tempo base, diffusa a parer mio dal colonialismo, come anche altri dei miei compagni affermano. Anche nella musica classica è molto presente la poliritmia ma con la differenza che qui gli accenti rimici tendono ad adattarsi mentre nella musica africana cerca di proposito di mettere gli accenti ritmici lontani rispetto a quelli ritmici in modo da lasciare più libertà. Questa poliritmia africana ha molto influenzato anche il swing e il jazz creando in questi generi diverse tensioni ritmiche a seconda dell’artista. Per ritornare all’articolo anche io come Victoria penso che il testo in questo tipo di musica non sia necessario poiché in un certo senso può essere un elemento di distrazione da ciò la poliritmia vuole sottolineare: il ritmo del brano.
La poliritmia è una tecnica alla base della musica africana, che si è diffusa in Occidente grazie al colonialismo. Essa ci permette di ottenere, nelle esecuzioni, moltissime combinazioni poliritmiche. E’ un argomento su cui sono principalmente ferrati i batteristi, perché si trovano spesso in situazioni in cui devono gestire ed esaltare questi cambi di tempo. Il cambiamento di tempo però, come viene detto nell’articolo, deve dare all’ascoltatore un’idea di continuità. Una continuità che permette di individuare una coerenza nel brano e che non va a confondere colui che ascolta.
La poliritmia penso sia molto stimolante in stili come il Jazz, dove ritengo che abbia molto spazio per essere applicata e inserita. Nel jazz si prendono le distanze dalle rigidità della tradizione, ci si fa trasportare dalla musica.
Il brano jazz che voglio prendere come riferimento è “In The Mood” di Glenn Miller (https://www.youtube.com/watch?v=_CI-0E_jses ). E’ un brano che ho scoperto qualche anno fa, ma che fin da subito mi ha affascinato. Il jazz in generale mi ha sempre attratto e allontanato allo stesso tempo: attratto perché è costruito su dei ritmi coinvolgenti, che appassionano e divertono colui che ascolta, allontanato perché è lontano dalle regole formali a cui siamo abituati, nel jazz bisogna lasciarsi andare, cosa che non tutti sono in grado di fare.
Ritengo molto interessante la citazione della musica antica che lei ha fatto. Vorrei mettere in luce il fenomeno del cosiddetto “segno contro segno”, ovvero due voci o più sovrapposte che hanno un segno di mensura diverso. Un esempio è la Missa prolationum di Ockeghem (https://youtu.be/_t-rAsC9IWc). È possibile notare una notazione di mensura diversa tra superius (o cantus) e contratenor, che hanno il primo canone, rispetto a quella di tenor e bassus, che eseguono il secondo. Il cantus e il contratenor cantano alla semibreve ma il cantus è in tempo imperfetto, quindi con tempus binario, mentre il contratenor con tempo perfetto dunque con tempus ternario. Invece tenor e bassus cantano alla minima, dunque risultano essere più lenti. Questo è un esempio lampante di poliritmia che dimostra come questa pratica affondi le proprie radici in epoche antiche.
nell’ultimo commento avevo scritto che non ho mai incontrato la polimetria, intesa come sovrapposizione in contemporanea in più voci di metri diversi, ma mi sbagliavo! c’è uno dei pezzi per pianoforte che ho studiato che ha proprio come oggetto questo tipo polimetria: lo studio “Arc En Ciel” di Ligeti. https://www.youtube.com/watch?v=ELZk7mNbs9I
questo studio oltre ad avere un’armonia ricchissima e assolutamente innovativa, ha un metro molto particolare: la mano destra è in 3 quarti, la mano sinistra è in 2 quarti-e-mezzi, il risultato è che le battute anche se con metri diversi hanno la stessa durata (6 ottavi) ma l’accento interno che deriva dalle suddivisioni cade in momenti diversi per le due mani; sulla partitura infatti troviamo proprio delle linee tratteggiate che dividono le battute nelle sue pulsazioni.
in questo studio troviamo anche numerosi momenti di poliritmia, momenti dove le due mani suonano gruppi irregolari diversi, ad esempio ci sono momenti dove la destra suona una quintina mentre la sinistra suona una terzina, 5 contro 3, momenti dove la destra suona una sestina mentre la sinistra suona gruppo da 4, 6 contro 4…
insieme al tempo piuttosto libero e irregolare, alle varie corone, alle dinamiche esagerate, dai FFF a metà del pezzo al PPP alla fine; l’escursione ampissima non solo di dinamica ma anche di altezza, in questo brano si arriva a suonare sia la nota più bassa che la nota più alta dell’estensione del pianoforte (La0 e Do7)… si crea un po’ di caos, ma è per questo che è uno dei miei pezzi contemporanei preferiti.
Nell’articolo , facendo riferimento al rapporto melodia testo , lei ci pone la seguente domanda : “ Ma non è forse questa una sicura strada verso una realizzazione coerente, verso le scelte ritmiche più consone e certamente più felici per un’ottima interpretazione musicale?”
Non sono d’accordo con questa affermazione , o meglio , in parte sì e in parte no. Penso che un’ottima interpretazione non è data solo da scelte ritmiche precise e dallo stretto rapporto tra il testo e le parole , ma anche da una ricerca accurata di suoni particolari di ritmi diversi e intriganti che donano particolarità al proprio stile e alla propria persona. Ovviamente l’aderenza tra testo e parola è un aiuto per il cantante che purtroppo , spesso , si trova costretto a seguirla e non è libero di esprimere la propria arte , anche trasformandola.
Si può fare un’ottima interpretazione sia restando ancorati alle scelte metriche che la musica ci impone , sia mescolando diversi ritmi e stravolgendo la melodia.
Ella Fitzgerald “ SUMMERTIME “ :
https://youtu.be/u2bigf337aU
Nel primo commento che ho pubblicato ho affermato che la parola fosse fonte di distrazione, ma mi sbagliavo. Quindi cara Chiara mi trovo d’accordo con te riguardo all’insieme di elementi che tu hai citato per quell’”ottima interpretazione” di cui tu parli. Infatti, prendendo come esempio il famoso brano di Louis Armstrong “What a wonderful world” possiamo vedere come la parola insieme al ritmo creino poliritmia e in più c’è la personalità dell’artista che insieme danno quel senso di positività e di speranza che Armstrong voleva trasmettere. In questo brano inoltre, proprio per quello che voleva dare all’ascoltatore, come anche detto nell’articolo, “la parola dava chiarezza concettuale”, chiarezza che senza testo non era possibile comprendere appieno.
https://www.youtube.com/watch?v=CWzrABouyeE
Oltre agli esempi che ho già fatto, possiamo dividere la poliritmia in 2 sottogruppi: la Poliritmia regolare e irregolare e la poliritmia allusiva o sottintesa.
Come poliritmia regolare si intende la ripetizione di una porzione di brano che è si poliritmica ma che appunto viene ripetuta in maniera regolare, e questo è riconducibile al tipo di influenza dettato dalla musica africana.
Per poliritmia irregolare invece si intende sempre l’uso di cellule o porzioni ritmiche o melodiche ma che non vengono ripetute in maniera regolare all’interno del brano.
Per quanto riguarda la poliritmia allusiva o sottintesa è più complessa da ricercare e trovare in un brano in quanto non si basa su delle cellule ripetute ma su un fraseggio più raffinato del solito se si può dire cosi, un uso degli accenti e un uso del contrappunto ritmico che va a toccare la poliritmia senza però diventare ripetitivo, per questo è chiamata sottintesa.
La poliritmia nasce in Africa ai tempi del colonialismo. Sebastiano lancia una provocazione: “è possibile che la poliritmia sia arrivata in Europa con il colonialismo, (non sarebbe la prima volta che l’uomo bianco strappava qualcosa al continente africano), e mescolandosi con l’eredità della musica antica, abbia dato vita alla moderna accezione del termine?” A questo proposito vorrei descrivere un evento che ho trovato sul web durante una ricerca:
Pesenti era un generale del Regio Esercito Italiano, attivo in territorio in qualità di comandante delle truppe coloniali. Durante il periodo di permanenza in Somalia, trovandosi immerso nell’ambiente e nella cultura coloniale, il suo interesse per la musica colta si apre verso le tradizioni popolari africane mettendo alla prova le sue abilità aurali ed etnografiche. Quindi è molto probabile che la poliritmia abbia trovato il suo posto grazie anche ad una fusione con la musica antica e coniando così un nuovo modo di fare musica e nuovi generi. Allo stesso tempo però si viene a creare quella differenza che oggi identifichiamo come poliritmia dichiarata e sott’intesa, la musica africana tende a far risaltare gli accenti e la poliritmia che sta sotto, senza celare la vera natura di quella musica, d’altra parte mescolandosi e influenzando la musica antica si è creata una musica che invece nasconde e non fa risaltare questa differenza di ritmo.
Nel corso della mia attività come strumentista non ho avuto moltissime occasioni per sperimentare la poliritmia (oserei dire forse quasi nulla), anche se penso di aver affrontato lo studio di alcuni brani che ci sono andati a mio parere molto vicino e che mi piacerebbe condividere. Alcuni “timidi esempi” di poliritmia (se così si possono definire) si ritrovano anche all’interno del tango, nel quale le varie voci sono ritmicamente molto diverse le une dalle altre e gli accenti, sempre molto marcati, vengono spostati in maniera costante e repentina. Dal mio bagaglio personale, posso citarne un esempio: il Libertango di Piazzolla arrangiato da Jeff Scott per quintetto fiati https://youtu.be/lpS5f4JFiEc (affrontato, tra l’altro molto recentemente). Nonostante all’interno di esso non sia presente una poliritmia esplicita, posso riportare qui di seguito la mia esperienza personale che mi ha lasciato molto su cui riflettere: la composizione in sé è già molto difficile, in quanto è il risultato di numerosi e complicati incastri fra gli strumenti, ma a un certo punto del brano in particolare, ognuno dei cinque musicisti ha una figurazione ritmica “indipendente” e profondamente diversa dalle altre, tanto che il “trucco” per riuscire a completarne l’esecuzione al meglio è stato quello di continuare sulla propria strada e contare attentamente. Un altro esempio proveniente dalle mie esperienze personali sono i 10 Flashs per chitarra di Jean-Louis Petit, un compositore francese nato nel 1937 (di cui, purtroppo, non ho trovato nessuna esecuzione e nessun video da proporre di seguito). In questo caso ci troviamo in un contesto, quello del Novecento ormai inoltrato, dove la poliritmia, grazie alle sue caratteristiche “di novità” che la rendono la candidata perfetta per il ruolo di sperimentazione e allontanamento dalla tradizione, conosce una più ampia diffusione rispetto ai periodi precedenti. Il brano (mi riferisco al Flash n° 2, da me eseguito durante il mio percorso di studi), è caratterizzato da una ritmica quasi ostinata, da dinamiche accentuate e da un carattere (tipico in numerose composizioni novecentesche) duro, quasi aggressivo, forse a testimoniare il periodo di grandi trasformazioni e tensioni che si stava vivendo. Ma la cosa più interessante è proprio il continuo cambio di metrica, che arriva a caratterizzare, in alcuni punti, ogni singola battuta: abbiamo infatti, in serie, battute di 5/8, 3/4, 5/8, 7/8, 5/8, 3/4, 3/8 e così via. Di primo impatto sono rimasta veramente spiazzata da questa musica per me totalmente nuova, in particolare sul mio secondo strumento, quello di cui non possiedo una completa e totale conoscenza, familiarità e padronanza. Proseguendo nello studio ho però imparato ad apprezzarlo, ritenendomi alla fine soddisfatta di essere venuta a contatto con un “mondo”, quello della polimetria “esplicitata”, così diverso da quello a cui siamo sempre stati abituati.
Un altro brano in cui, secondo me, si può trovare la poliritmia è “The Snow is Dancing” dalla suite Children’s Corner in cui Debussy introduce una melodia su un si bemolle ripetuto e statico, espresso in ritmi incrociati a divisione di terzine che compensano questo strato indipendentemente dalle note del sedicesimo che comprendono le due linee di fiocco di neve danzanti sotto di esso. E grande attenzione all’esattezza dei ritmi è richiesta proprio dalla sovrapposizione poliritmica di pedali, ostinato e melodia.
https://www.youtube.com/watch?v=7RAwy6gP61A
Vorrei condividere la mia esperienza personale portando alcuni esempi di brani in cui ho ritrovato questo spostamento degli accenti o addirittura il cambio di metro. L’anno scorso ho avuto modo di studiare il Vespro della Beata Vergine di Monteverdi e ricordo bene la difficoltà che ho trovato nel seguire le diverse emiolie e i cambi di tempo interni ai singoli salmi. Ad esempio in “Nisi dominus” (https://youtu.be/YO6kkBV9fSc) , per doppio coro, ci sono diversi cambi di tempo quando i due cori si alternano: si passa da una pulsazione binaria a una ternaria per poi tornare, sul finale, ad una pulsazione binaria (questo cambio si sente e si vede nel link fornito, più o meno dal minuto 2:05 al 2:25). Ecco, questo è un primo esempio che mi è rimasto impresso soprattutto perché ricordo la fatica nel riprendere le diverse tipologie di pulsazione ogni volta. Sempre nel Vespro durante il salmo “Ave Maris stella” (https://youtu.be/deagNRZmrTs) si verifica una cosa simile. C’è una breve sezione che alterna i due cori ed è in tempo ternario (e già per questo si distacca dalla parte precedente, che era in tempo binario) ma ci sono delle emiolie che spostano la pulsazione proprio per assecondare la sillabazione (nel link fornito dal minuto 2:52 al minuto 3:27). Stesso tipo di fenomeno si verifica nella messa in si minore di Bach, che sto studiando con il coro proprio in questo periodo. Segnalo in particolare il finale del “Gloria” (https://youtu.be/p16wOPrX7Rk finale dal minuto 1:30 al minuto 1:43, dove inizia”Et in terra pax”) e il tema dell’imitazione polifonica di “Pleni sunt coeli” (https://youtu.be/MKSepgvTxfM il brano inizia al minuto 2:56).
Come ha già spiegato lei nell’articolo, la poliritmia è molto presente all’interno della musica rinascimentale, nonostante apparentemente sembri musica molto lineare e semplice, per usare le sue parole potremmo definirla sottintesa.
Un compositore e organista rinascimentale inglese che purtroppo è poco conosciuto, ma che a me piace moltissimo, è William Byrd che ha composto molti mottetti su testo latino come la raccolta “Cantiones sacrae”, varie messe come la “messa per cinque voci” (che consiglio di andarla ad ascoltare che è molto bella). Non ha composto solo musica sacra ma anche musica profana ed è proprio in una sua composizione profana che troviamo un fantastico esempio di polimetria, e cioè nella Fantasia in La (BK 13, dal Fitzwilliam Virginal Book 100, 52). In molti punti di questa composizione possiamo trovare diverse polimetrie, ma il punto più evidente è nelle ultime due battute di pagina 191 e le prime cinque di pagina 192 dello spartito presente nel seguente link:
https://us.imslp.org.ong/imglnks/usimg/7/79/IMSLP602437-PMLP969105-E178082_216-223-SIBLEY1802.18867.35cc-39087012336568vol._1.pdf
Lo si può ascoltare anche al seguente link dal minuto 4:05 al minuto 4:30
https://www.youtube.com/watch?v=qdQObToEB-Y
La poliritmia nel rinascimento non è fine a se stessa ma, nei brani vocali ha il compito di enfatizzare le parole più importanti del testo (ad esempio in un mottetto religioso si enfatizzano parole come Cristo, Dio, Santi…), non solo serve per enfatizzare parole dei testi, ma anche passi di danza. Pensiamo ad esempio alle corti rinascimentali nelle quali avvenivano banchetti accompagnati da musica e balli. Per aiutare i ballerini, la musica era composta appositamente con ritmi bene precisi, e molte volte si usava anche la poliritmia appunto per enfatizzare alcuni passi di danza.
Credo che la poliritmia rispecchi perfettamente la tendenza, di cui Debussy è esempio eclatante, alla contaminazione culturale. Ciò rispecchia un’attitudine anche artistica rispetto ad un gusto per l’oriente.
Qualche anno fa sono andata ad una mostra in cui veniva trattata la componente orientale, nello specifico giapponese, all’interno dei quadri dei Post-impressionisti. Mi ha molto colpita l’ultimo “step” della mostra che apriva a collegamenti con la storia della musica. Tra questi spiccava una frase di Debussy, in riferimento alla Suite per pianoforte Estampes (https://www.youtube.com/watch?v=R-YcnPXY2yE):
“Quando uno non può pagarsi un viaggio, bisogna immaginarlo con la fantasia”. Ciò sintetizza bene la concezione anche culturale di Debussy, che ricorre a soluzioni lontane dalla tradizione occidentale, come la poliritmia, con l’esplicita volontà di ricreare un contesto di timbriche e di ritmi che facciano “viaggiare” con la mente l’ascoltatore.
Poliritmia intesa quindi come un linguaggio universale, cosmopolita, che va oltre i confini geografici e si afferma in una musica simbolo di condivisione ed interazione, ma soprattutto di curiosità.
Quella stessa curiosità che animava i musicisti del periodo medioevale-rinascimentale a cui risalgono i primi esempi di poliritmia “non dichiarata”. Nonostante si tratti di due periodi storici profondamente differenti, in cui l’idea del viaggio non era così radicata nella società, perlomeno non nella forma coloniale successiva, la curiosità dei musicisti è vivida e in pieno movimento. Il bisogno di comunicare in maniera sempre nuova, di attingere a forme di linguaggio diverse diventa una costante nelle epoche e la poliritmia si fa simbolo di quella curiosità che forse è proprio il motore della musica.
Al contrario di molti dei miei compagni non ricordo di avere avuto esperienze di brani poliritmici. L’unico brano che ho studiato che può avvicinarsi può essere il primo studio dell’opera “Tango Etudes” di Astor Piazzolla. La composizione non è propriamente una poliritmia ma più uno spostamento degli accenti ritmici che ricreano quello stile movimentato della poliritmia. Studiare questo brano è stato molto difficile ma devo ammettere che dopo aver capito come funziona è stato molto divertente eseguirlo e la melodia restava molto in testa. Il brano, come già accennato anche nell’articolo, presenta una “mescolanza continua delle differenti pulsazioni” creando quindi la polimetria rendendo evidente gli spostamenti degli accenti metrici e accentuando il ritmo mosso del brano.
https://www.youtube.com/watch?v=aAZCfj4Ahf4
La mia esperienza personale con la poliritmia presenta innanzi tutto una certa difficoltà tecnica, ritmi differenti che si incontrano e che per raggiungere l’effetto sperato devono essere eseguiti in modo ritmicamente perfetto.
Successivamente invece cerco di vedere l’aspetto ritmico in una dimensione globale, mi spiego meglio: tento di andare oltre alla difficoltà ritmica presentata in una singola battuta per poter approfondire il risultato anche espressivo che la poliritmia nel complesso di un brano restituisce.
L’effetto che ne consegue è nuovo e forse un po disorientante ma proprio per questo risulta più interessante e suscita maggiore curiosità nell’ascoltatore che cerca continuamente un appiglio stabile dal punto di vista ritmico.
Penso ad esempio a diversi pezzi rock o jazz che sfruttano questo genere di ritmica e all’onda travolgente che li accompagna.
La mia considerazione, infine, si concentra sul fatto che la poliritmia è una forma di libertà ritmica, una rottura degli schemi sia nel campo ritmico che in quello espressivo.
Da studente ho riscontrato diverse difficoltà a comprendere la poliritmia in questo senso, probabilmente perché la interpretavo semplicemente nel suo carattere tecnico; solo con uno sguardo più globale e più ampio ho capito l’importanza dell’elemento ritmico nel linguaggio espressivo.
Riprendendo in mano il titolo dell’articolo che è passato per un attimo in secondo piano, vorrei riflettere su alcune delle esperienze ragionando sulla loro più o meno esplicita poliritmia. Il brano variazioni sul tema lamenti era estremamente dichiarato, sia all’ascolto che guardando la parte: cambiamento brusco che anche un orecchio meno “raffinato” può percepire; lo stesso si può dire per l’utilizzo di cellule ternarie contro binarie in Grieg. Se però prendiamo ad esempio i brani analizzati in classe da cantare, dal punto di vista dello spartito non è una poliritmia dichiara: lo è solamente con l’esecuzione e l’ascolto, perché dovuta spesso agli accenti delle parole e alla loro posizione. Al contrario, in alcuni brani di Stravinskij (come in Histoire du soldat), abbiamo visivamente dei cambi di tempo, ma che poi, grazie alle cellule ritmiche scelte o anche alla velocità del tempo, non fanno percepire in maniera brusca questo passaggio, né all’ascoltatore e a volte nemmeno all’esecutore.
Un altro brano che vorrei scomodare parlando di poliritmia è “il giocatore di biliardo” di Angelo Branduardi. Premetto che questo cantautore mi piace molto, perché, soprattutto le compenetrazioni tra tempo binario e ternario nelle sue canzoni, gli danno la dinamicità che spesso cerco quando ascolto la musica, unite ad una ricerca anche etnica della musica che porta a tali risultati. In questo brano, durante il ritornello io percepisco una metrica che da 2/4 si trasforma in 6/8 che è dato soprattutto dalla melodia del flauto che accompagna la voce: questo gioco di ritmi combacia in maniera perfetta col testo: visivamente penso che sulla partitura non ci sia segnato il cambiamento del tempo, ma con l’orecchio è a mio parere molto percepibile.
https://youtu.be/1Rzexu1zfrc
Cosa ne pensate degli esempi che ho fatto?
Riprendendo il commento di Aurora: io credo che il titolo dell’articolo, oltre a riferirsi a una poliritmia dichiarata graficamente o sottintesa dall’esecuzione, intenda anche la poliritmia sottintesa per esempio nelle composizioni rinascimentali, una poliritmia quindi in secondo piano rispetto al testo, c’è ma non si vede e non si sente.
La poliritmia dichiarata, secondo me, è l’elemento principale della composizione, quello trainante, non impiega ritmi particolari per seguire il testo ma dichiaratamente varca i confini utilizzando figure poliritmiche per scopi espressivi musicali.
In quest’ultimo anno scolastico ho avuto modo di studiare dei brani jazz per pianoforte, che in un primo momento mi hanno messo d’avanti diverse difficoltà soprattutto per i continui spostamenti d’accento e poliritmie. Ho sperimentato in prima persona cosa vuol dire suonare ritmi diversi contemporaneamente al pianoforte, con una tecnica che richiede a mio parere molta coordinazione, padronanza della tastiera e orecchio. Con molto esercizio e buona volontà sono riuscito ad assorbire queste tecniche e a farle mie, e la soddisfazione è stata molto alta.
Il primo brano che ho studiato è stato il IV preludio dei “Preludi in jazz style” di Nikolaj Kapustin, un pianista e compositore ucraino che unisce degli influssi di musica classica e jazz.
Il pezzo in questione presenta alcuni passaggi poliritmici, che vedono prevalentemente terzine di ottavi contro quarti, e spostamenti di accento, soprattutto nelle ultime battute.
La difficoltà principale è quella di mantenere la pulsazione del metronomo anche con questi tipi di passaggi e evidenziare la melodia principale.
Un altro brano che sto studiando che contiene cenni di poliritmia è senz’altro lo studio n.4 della raccolta “Play piano play” di Friedrich Gulda, un grandissimo interprete di compositori classici che ad un certo punto della sua carriera decise di iniziare a comporre musica jazz.
Questa mescolanza ritmica si può trovare soprattutto nelle parti dove ci sono dei “soli” di mano destra, spesso di terzine di ottavi con sotto un accompagnamento in quarti, e nel tema principale.
Kapustin Prelude in Jazz Style No.4 Op.53: https://www.youtube.com/watch?v=2bJWUB4_xzQ
Gulda Play piano play No.4: https://www.youtube.com/watch?v=h51WMtM0E5c
Nel precedente commento ho parlato della mia esperienza con la polimetria. Ora mi piacerebbe cercare di analizzare un brano che non ho mai suonato ma che ritengo significativo per comprendere la poliritmia in generale. “Prelude, Fugue & Riffs” di Leonard Bernstein è il nome della composizione in questione.
Leonard Bernstein (1918-1990) è stato uno dei direttori d’orchestra e compositori più importanti del 1900. Di famiglia ebreo polacca, nasce e cresce negli Stati Uniti in città come New York dove avrà l’opportunità di dirigere a soli 25 anni la New York Philharmonic Orchestra. Da questo momento in poi la fama legata alla sua bravura inizia a crescere fino a raggiungere i massimi livelli.
Come compositore ha prodotto una notevole quantità di musica in generi che spaziano fra la produzione per il cinema, la produzione sinfonica, alcuni balletti, musical, produzione per coro e per ensamble da camera.
Bernstein iniziò a comporre “Prelude, Fugue & Riffs” nel 1949 ma per una serie di motivi non fu mai eseguita fino al 1955 quando fu suonato per la prima volta nel programma TV “Omnibus” del quale il compositore era anche presentatore. Si tratta di una composizione per jazz band e clarinetto solista (dedicata a Benny Goodmann e poi riscritta anche in una versione per orchestra sinfonica) divisa in tre sezioni che sono essenzialmente indipendenti fra loro. Per i fini del commento, ci concentriamo ora solamente sull’ultima parte (riffs). All’inizio in 4/4 scanditi dal ritmo del pianoforte si sovrappone alla sesta battuta il tema del clarinetto solista che con la sua entrata sposta gli accenti e di fatto crea quello che potrebbe essere un esempio di poliritmia sottintesa. Dopo questa fase caratterizzata dal vorticoso dialogo fra pianoforte e clarinetto si inserisce la batteria e il contrabbasso che scandiscono a loro volta il 4/4 mentre il pianoforte si muove con valori ritmici differenti creando ancora una volta il gioco poliritmico. Successivamente è presente un complesso meccanismo di incastri ritmici come quelli fra i tromboni e la batteria a cui si aggiunge il pianoforte e il clarinetto fino alla ripresa del tema iniziale da parte delle trombe. In questa parte nonostante l’indicazione metrica rimanga invariata, attraverso i continui spostamenti di accento e sovrapposizioni di ritmi diversi si ritorna alla poliritmia che in questo caso è sfacciatamente dichiarata. La difficoltà sta proprio nel riuscire a mantenere il tempo iniziale e non sbagliare gli incastri metrici. Il brano procede poi con la rispesa da parte del clarinetto solista del tema principale a cui rispondono gli altri strumenti come le trombe e i sax in un continuo e vorticoso meccanismo di incastri ritmici.
https://www.youtube.com/watch?v=Q5dKNN2NkUg (Riffs inizia al minuto 4.11) Buon ascolto!
Armando Anthony Corea detto Chick, batterista e pianista di una delle cantanti Jazz più famose Degli Stati Uniti: Ella Fitzgerald.
Chick dice : “ il mio intento è stato sempre quello di portare la gioia di creare qualcosa ovunque io abbia potuto farlo, e di averlo fatto fianco a fianco con artisti che ammiro. questa è stata la ricchezza della mia vita” Basti ricordare la performance in duo con Stefano Bollani.
Ricordiamo Chick soprattuto per la sua varietà Ritmica. A otto anni inizió a suonare la batteria e il pianoforte. Aveva ricavato il suo interesse per le divagazioni poliritmiche , per le accentazioni irregolari del fraseggio, per le dinamiche accostate sempre a un senso melodico italiano.
Più volte nella sua carriera fa riferimento al suo cuore iberico, “ spanish tinge” ovvero il sapore spagnolo, a diretto contatto con la vitalità ritmica afroamericana dei Caraibi e dell’America Latina.
Corea incide le “ piano improvvisation “ che riaprono la strada verso i flussi improvvisativi e delle armonie aperte.
Sono rimasta colpita da un’esecuzione live di Bobby McFerrin insieme a Chick Corea : “SPAIN “ , trovo questo brano davvero interessante , i giochi ritmici e l’improvvisazione del cantante mi hanno suscitato grande interesse , nonostante il brano duri 8 minuti , l’ho ascoltato senza interromperlo ad occhi chiusi. Alcune armoniche e vibrazioni che la voce del cantante ha prodotto è come se riuscissero a raccontare una storia.
Questo argomento mi ha portato a conoscere e a documentarmi su un mondo che non viene apprezzato da tutti ma con una storia molto ricca.
SPAIN:
https://youtu.be/_o2RS8WfcbY
Goethe diceva che “il ritmo ha qualcosa di magico; ci fa perfino credere che il sublime ci appartenga”. Questa citazione, insieme a quella ripresa da Chiara G mi ha fatto rimandare a un’ultima mia esperienza in questo campo. Il brano che prendo in considerazione è “thulele mama ya” dei Cool’s Lunch che si occupano di canti a cappella. Questo brano unisce, a mio parere, l’elemento della voce ripreso anche nell’articolo sovrastante, con la miscela di ritmi vari e quello percussivo. In questo canto, che ha molto un sapore africano, dove per altro la polifonia regna sovrana, emerge anche l’elemento percussivo. Quest’ultimo è per lo più dato da un campanaccio e dal corpo. E’ qui che entrano in gioco le citazioni. Per quanto riguarda Goethe, grazie a questo brano, l’esecutore è totalmente immerso nella musica sia per le parole che per il body percussion ed è come se si elevasse a un mondo diverso: quello della musica dominata dal ritmo. La poliritmia è, sullo spartito, non dichiara nella metrica, ma tra voci e body percussion e a volte tra le voci scelte, si utilizzano spesso sincopi o cellule contrastanti che però servono proprio a dare vita al brano che apparentemente è semplice, ma che in realtà, per l’esecutore, non lo è: deve unire tecnica canora e la coordinazione col corpo, riuscendo a dividere il cervello per fare due ritmi diversi. La citazione di Ella Fitzgerald, mi ha illuminato su un verbo che utilizza: costruire. Questo brano non ha timbri contrastanti e non richiede un’organico immenso: questo dovrebbe farci riflette sul fatto che spesso si cerchi (anche quando si comporre) di cercare sempre cose complesse. L’interesse invece, può scaturire anche dalla consapevolezza di saper utilizzare anche elementi semplici, ma sapendoli incastrare in maniera nuova e stimolante dando vita a composizioni al pari come quelle che apparentemente paiono più complesse.
Vorrei portarvi un esempio molto famoso che secondo me è perfetto quando si parla di poliritmia sottintesa:
Ascolto 1: https://youtu.be/A5tRGMHfKrE (Dizzy)
Ascolto 2: https://youtu.be/mGoHz1VzRiE (Maraca & His latin jazz all star) (dal minuto 1:57)
Il brano in questione è Manteca di Dizzy Gillespie.
Dizzy è stato uno tra i più grandi trombettisti e compositori jazz della storia.
Nel 1947 il trombettista, già molto famoso, assunse nella sua big band il percussionista cubano Pozo, che a sua volta era un percussionista molto conosciuto nel panorama musicale afro cubano. Da quì lo stile di Dizzy prende una brusca piega verso le influenze musicali latino americane. Dall’unione del mondo dello swing e del bebop di Dizzy e il mondo afro-cubano di Pozo nasce Manteca che è definita un jazz afro-cubano e va a costituire il più importante standar jazz afro cubano di tutto il repertorio jazzistico mondiale. Ho messo anche una seconda versione della Maraca & His latin jazz all star, questo gruppo di musica cubana ha come membro più importante il più grande flautista e arrangiatore cubano della storia, Orlando Valle detto Maraca.
Queste due versioni sono una fucina di poliritmi ma nulla è dichiarato, ovvero quando si parla di Manteca o in generale dei generi latino americani si parla principalmente si sincopi e di clave, ovvero l’intera composizione è creata da un’ostinato ritmico sincopato (clave) che fa da linea ritmica principale dove poi si va a sviluppare tutto il brano. Ma a questa clave si vanno ad aggiungere un’insieme di improvvisazioni e di commistioni ritmiche che vanno a costituire un vero e proprio gioco di poliritmi, che non si troveranno mai su nessuna parte scritta o arrangiamento. Quindi è l’improvvisazione che crea la poliritmia, ed è il musicista che attraverso il suo istinto va a creare questi incastri ritmici che rendono questa composizione frizzante e divertentissima. Questo si può notare molto bene nella seconda versione di Manteca perchè sia il flautista che i due percussionisti improvvisano ogni singola nota seguendo semplicemente l’ostinato ritmico e qualche linea melodica principale, creando un complesso poliritmico sensazionale.
Vorrei portarvi anche un esempio molto famoso che secondo me è perfetto, quando si parla di polimetria musicale:
Ascolto: https://youtu.be/4EGczv7iiEk (Beatles)
Non penso che i Beatles hanno bisogno di presentazioni, ma penso che questo brano abbia bisogno di qualche riflessione.
Quante volte questo brano lo abbiamo ascoltato o cantato senza far caso alla polimetria al suo interno. Le strofe infatti sono state composte in 7/4 divise in 4+3. Se si ascolta attentamente il brano si capisce che la strofa è una alternanza tra tempo pari e dispari mentre il ritornello è rigorosamente in 4/4. Il riff di chitarra se ascoltato attentamente da un certa sensazione di instabilità metrica. Questo era molto innovativo per l’epoca a maggior ragione se pensiamo che ci troviamo in un’ambito pop. i Beatles sono riusciti a inserire in una canzone che sarebbe passata in tutte le radio di tutto il mondo una ricchezza metrica insolita sopratutto quando nel panorama discografico internazionale l’indiscusso protagonista era il rock’n’roll con il rigorosissimo 4/4.
Durante lo sviluppo artistico del barocco, penso che la poliritmia raggiunse l’apice nel suo impiego musicale perché prima del classicismo non era ancora stato teorizzato il concetto di accordo, quindi da Palestrina fino a Mozart la principale pratica di composizione era il contrappunto che prevedeva l’incrocio di più figure ritmiche e melodiche. la poliritmia è stata poi usata estensivamente da alcune tradizioni musicali popolari, soprattutto in quelle Africane. Da queste, la poliritmia ha trovato spazio anche in ambiti musicali più moderni quali jazz e la musica latina. In questi giorni sto preparando per un esame la sonata per violino e pianoforte di Dvorak. Molte delle sue opere mostrano anche l’influenza della musica folkloristica ceca, sia per i ritmi, sia per le melodie, forse gli esempi più noti sono le due raccolte di Danze Slave. Lungo il corso del brano mi sono trovato di fronte spesso l’impegno simultaneo di più figure ritmiche e spostamenti di accenti. Devo ammettere che è una vera e propria sfida riuscire ad incastrarsi perfettamente con il pianoforte perché nei momenti di tensione, in cui queste figure si trovano più spesso, si ha una sensazione quasi di caos e sovrapposizione di ritmi.
La mia esperienza con la poliritmia si rintraccia anche in un brano che sto studiando al pianoforte ossia Jardinds sous la pluie di Debussy. La poliritmia è una cifra stilistica di Debussy. Egli spesso crea fitte sovrapposizioni di più ritmi contrastanti fra loro. Ciò è parte della sua concezione statica del ritmo, spesso ondeggiante in una fascia sonora quasi immobile. Ciò si unisce anche alla concezione egualmente statica e quasi circolare della forma, che non tende verso il raggiungimento di un climax, per Debussy infatti è l’attimo fuggente per sé stesso il valore e non in quanto legato ad un prima e ad un poi. Queste sono alcuni degli stimoli che Debussy trasse dall’esperienza di un esibizione di un’orchestra Galeman dell’isola indonesiana di Giava, costituita per la gran parte da strumenti a percussione di metallo e a rappresentazioni del teatro di corte dell’Annam (odierno Vietnam) nel 1889. Al di là della leggera complicazione tecnica scaturita dall’alternanza e dall’incastro di combinazioni ritmiche divergenti, la mia esperienza della poliritmia in Debussy è stata entusiasmante in quanto nel suonarla si percepisce la vivacità delle possibilità estetiche della resa sonora che sono racchiuse in ogni istante di ogni battuta, inoltre, con la poliritmia e la polimetria Debussy riesce a tenere vivo un discorso che cambia ambientazione in base al metro su cui si sviluppa, dunque la pulsazione e l’accento cambia la marcia del passo proprio a confermare l’avvenuto mutamento del paesaggio su cui si cammina.
https://youtu.be/ul0V6Agy_aY (argerich)
https://www.youtube.com/watch?v=w-1ERRRUM-c (con partitura)
Per me siete stati spettacolari: esempi e riferimenti precisi verso “ogni tempo ed ogni luogo”. Grazie dei numerosi contributi, che confermano quanto siate attenti e profondi.